È morto Roberto Maroni, aveva 67 anni
Se n'è andato il barbaro sognante, ma alla fine il sogno di conquistare Roma è diventato realtà. Roberto Maroni è morto nella sua Varese, dov'era nato 67 anni fa e dove tutto è iniziato quando era uno studente di Legge che votava Democrazia Proletaria.
L'incontro nel 1979 con Umberto Bossi cambiò la sua vita e se «lui è il papà della Lega, io ne sono la mamma», spiegava. Perché da quel giorno la politica diventò il suo lavoro, mentre il calcio e la musica restarono solo passioni.
Ha continuato ad andare a San Siro a vedere il Milan e ha continuato a suonare blues con l'organo Hammond nella sua band, i Distretto 51, oltre ad ascoltare i dischi del suo idolo Bruce Springsteen, ma soprattutto è diventato per oltre vent'anni uno degli uomini politici più importanti d'Italia: è tra gli 80 leghisti che rappresentarono per la prima volta la Lega in parlamento nel 1992, poi è diventato ministro dell'Interno e vicepresidente del Consiglio nel 1994, ministro del Lavoro nel 2001 e ancora ministro dell'Interno nel 2008 sempre con Silvio Berlusconi presidente del Consiglio, per chiudere infine la sua carriera nelle istituzioni come presidente della Regione Lombardia dal 2013 al 2018.
Aveva annunciato la sua candidatura per diventare sindaco di Varese, ma la malattia lo ha costretto a rinunciare un anno fa. Tutta la vita sempre nella Lega, di cui è stato fondatore e segretario con rapporti non sempre facili sia con Umberto Bossi che con Matteo Salvini. Da braccio destro del senatur e grande mediatore al suo posto con Berlusconi, ne è diventato avversario in più occasioni, a partire dalla caduta del primo governo di centrodestra nel 1995 quando si oppose alla sfiducia decisa da Bossi, venendo allontanato dal partito. Durò poco, una lettera di scuse segnò il suo rientro nel partito e iniziò la fase dura della Lega secessionista, alla quale Maroni contribuì coniando uno slogan diventato poi storico, cioè «Prima il Nord».
Ma la vera frattura con Bossi fu solo rimandata e arrivò nel 2012 quando le inchieste della magistratura travolsero tutto «il cerchio magico» attorno al segretario della Lega, accusato di tutto quello di cui la Lega aveva sempre accusato gli altri partiti politici. A capo della rivolta dei militanti ci fu proprio Maroni, colpito dal divieto di rappresentare la Lega in qualsiasi manifestazione ufficiale, fino a quando lo stesso Bossi comprese che era davvero arrivato il momento di fare pulizia e partecipò lui pure alla celebre serata delle scope di Bergamo, che segnò di fatto il passaggio di consegne tra i due. Fu infatti Maroni a diventare segretario del partito, una carica tenuta per un solo anno per poi andare a chiudere un altro lungo regno, quello di Roberto Formigoni alla presidenza della Regione Lombardia.
Lasciata a Matteo Salvini la guida della Lega, anche con lui i rapporti si sono fatti sempre più difficili («Con me si è comportato come uno stalinista», disse) e Maroni è stato tra i primi a chiederne le dimissioni dopo il risultato sotto il 10% delle ultime elezioni politiche. Troppo diversa la direzione in cui ha portato la Lega rispetto a quella pensata e creata da lui e Bossi, che comunque al Nord sono sempre rimasti legati anche quando sono scesi a Roma a governare. Federalista ma non secessionista, toni moderati ma sempre con grande passione, ascolto dei militanti e ostilità nei confronti di qualsiasi «cerchio magico» sono state le caratteristiche di un uomo che, anche nella sua ultima intervista al Corriere della Sera, si è definito «un sognatore». Perché oltre ai «vaffa» del barbaro, il militante leghista secondo lui ha sempre avuto «un sogno, cioè un progetto realizzabile a differenza dell'utopia». E Maroni lo ha realizzato.
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