Dopo la benzina, i maiali: allarme posti vacanti in Gran Bretagna
Non era mai capitato prima d'ora che nell'allevamento Wicks Manor Pigs, nella campagna inglese a 100 km est di Londra, i maiali nelle stalle superassero le 2.500 unità. Non per una scelta aziendale di accumulazione degli animali, quanto piuttosto per la penuria di manodopera nel mattatoio locale, che non riesce più a smaltire gli ordini e ha finito per inceppare la catena di macellazione dell'intera regione. Un rallentamento fatale che non riguarda però solo Witham, bensì buona parte del Regno Unito, dove nelle prossime settimane oltre 120mila maiali rischiano l'abbattimento senza entrare nel ciclo alimentare.
Da una crisi all'altra, senza apparente soluzione di continuità: è appena rientrata (in parte) quella degli idrocarburi che un'altra emergenza si affaccia all'orizzonte del Regno, sullo sfondo degli effetti dei contraccolpi post pandemia, ma anche di quelli di certe restrizioni legate alla Brexit. Crisi sfociate nell'impennata ulteriore di un'endemica carenza di lavoratori in alcuni settori chiave: tanto che secondo gli ultimi dati, il totale di posti vacanti su un'isola in cui pure la disoccupazione dopo la riapertura generalizzata delle attività economiche seguita ai lockdown è tornata a calare al 4,5%, vicino ai minimi storici, supera adesso il milione e 100.000. Con un forte impatto anche sul settore agroalimentare, oltre che su quello dell'autotrasporto (e conseguente rallentamento della distribuzione al dettaglio di vari prodotti freschi sugli scaffali dei supermercati, dopo quello della benzina alle stazioni di servizio).
«Rispetto ai livelli pre-pandemici accusiamo una carenza di quasi il 20% di lavoratori specializzati che ci sta paralizzando», conferma all'ANSA Zoe Davies, della National Pigs Association, prima a lanciare l'allerta sul pericolo di «una mattanza crudelmente inutile» degli animali. «Questi maiali non potranno essere classificati come idonei al consumo umano - spiega Davies - poiché la legge nazionale prevede che vengano macellati in apposite strutture, non direttamente negli allevamenti». Come viceversa molti allevatori britannici saranno costretti a fare, per ragioni economiche e logistiche.
«I maiali vanno al macello quando raggiungono circa i 105 chili, oltre quel peso diventano solo un costo e in più occupano spazio nelle stalle», si lamenta Fergus Howie, proprietario di seconda generazione di Wicks Manor Pigs: uno dei 10mila allevamenti britannici, sui quali si è abbattuta «la tempesta perfetta» che secondo alcuni giornali potrebbe finire per generare addirittura un nuovo «inverno di scontento» come quello che si abbatté sull'ecomomia e sui consumi della Gran Bretagna nel '78-'79. «La Brexit prima e il Covid in seguito ci hanno colpito. Non c'è dubbio che i timori e le nuove norme sull'immigrazione abbiano spinto molti stranieri ad andarsene. E chi aveva deciso di restare, ci ha ripensato quando è scoppiata la pandemia», l'analisi di Howie, che come molti altri operatori invoca un maggiore sostegno da parte del governo Tory di Boris Johnson, accusato di essersi finora limitato a promesse vaghe e a rilasciare qualche migliaio di visti temporanei facilitati per lavoratori esteri di settori come quello avicolo. Misura ritenuta insufficiente per fronteggiare l'attuale crisi, in un quadro in cui negozi e supermercati, di fronte al rallentamento delle forniture locali, hanno già fatto incetta di carne d'importazione, meno costosa e proveniente principalmente dall'area Ue. Riducendo in barba alla Brexit ancor di più la quota di mercato (attorno al 40%) detenuta dagli allevatori britannici.
«I permessi semestrali non bastano.Abbiamo bisogno di politiche protezionistiche perché un europeo che vuole vendere carne di pollo da noi non incontra alcuna difficoltà, mentre le nostre esportazioni sono sottoposte ora a severi controlli e pratiche burocratiche», denuncia fra gli altri Richard Griffiths del British Poultry Council, associazione degli allevatori di pollame, agitando lo spettro che le tavole britanniche possano restare persino senza il classico tacchino di Natale a causa della mancanza di lavoratori stagionali. «Un tempo si poteva dire che gli stagionali fossero sottopagati, ma oggi non è più così», gli fa eco Howie, provando da parte sua a respingere l'obiezione di chi sollecita gli stessi produttori a fare la loro parte e prendere atto della nuova realtà del dopo Covid e del dopo Brexit allargando i cordoni delle buste-paga; «la verità - nella sua lettura delle cose - è che in questo Paese nessuno vuol più fare certi mestieri troppo duri».
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