Coronavirus, la questione dei debolmente positivi
Tra i concetti entrati di recente nel discorso quotidiano sulla pandemia di Covid-19 c’è quello dei «debolmente positivi», riferito ai tamponi in cui le tracce del Sars-CoV-2 sono presenti in quantità limitata. Si tratta di un tema emerso attorno alla metà di giugno, quando diversi medici, ma anche politici come l’assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera, hanno iniziato a sottolineare come i nuovi casi rilevati fossero appunto «debolmente positivi».
«Più della metà dei nuovi casi deriva da positività ai sierologici - aveva spiegato il 19 giugno l’epidemiologo Vittorio Demicheli -. Li definiamo casi vecchi, debolmente positivi e con una carica virale così bassa che probabilmente non è più in grado di trasmettere l’infezione». Pochi giorni dopo, Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, aveva ribadito il concetto: «Non basta più elencare il numero di contagi regione per regione. Ora serve spiegare quanto positivo sia un paziente Covid». Alla base della sua affermazione c’era uno studio coordinato dall’Irccs San Matteo di Pavia su 280 pazienti clinicamente guariti che presentavano cariche virali basse. Soltanto in 8 casi su 280 il virus era risultato in grado di crescere in coltura e di essere, di conseguenza, potenzialmente infettivo, vale a dire il 2,9%. Una carica «praticamente non infettante», come aveva sottolineato il responsabile del laboratorio di virologia del San Matteo Fabio Baldanti.
Dal punto di vista comunicativo, uno degli obiettivi era ridimensionare il peso dei nuovi contagi comunicati ogni giorno, che vedevano e vedono la Lombardia al primo posto in Italia con percentuali rilevanti sul totale nazionale (i dati del 9 luglio attribuiscono alla regione oltre la metà dei casi di tutto il Paese). La Regione aveva chiesto ufficialmente all’Istituto Superiore di Sanità «di introdurre una netta distinzione dei casi “debolmente positivi” rispetto agli altri, in base alle nuove rilevazioni effettuate dalla comunità scientifica - aveva detto l’assessore Gallera -. In Regione Lombardia i casi ad oggi rilevati rappresentano sempre di più un esito debolmente positivo». Gallera attribuiva i nuovi positivi in Lombardia all’operazione di screening sierologica. «Da questi esami emergeranno certamente nuove positività, perciò dovranno essere considerate nella giusta misura, al fine di non creare allarmismi e dare la dimensione vera e reale della diffusione del contagio nella nostra Regione». Da allora, nel suo report quotidiano la Lombardia ha iniziato a differenziare i nuovi casi tra positivi e debolmente positivi, segnalando anche quanti fossero frutto di test sierologici. Al tempo stesso, la richiesta rivolta all'Iss non ha ancora ricevuto risposta.
Tecnicamente, i tamponi debolmente positivi «sono quelli che presentano meno di 5.000 copie di Rna virale per millilitro: per avere un termine di paragone, nei tamponi di inizio epidemia si trovavano milioni di copie del virus», spiega il virologo Francesco Broccolo dell'Università di Milano-Bicocca. I debolmente positivi sono solitamente soggetti asintomatici o, come nel caso dello studio del San Matteo, clinicamente guariti da Covid-19. «Avere una bassa carica virale equivale ad avere una minore dose infettiva, dunque il rischio di contagio è più basso, ma non si può dire che sia pari a zero», sottolinea comunque Broccolo.
Sul tema si è aperto nell’immediato un vivace dibattito tra gli scienziati. Il microbiologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti ha commentato (come suo solito) in maniera particolarmente netta: «Quando mi vengono a dire che gli asintomatici non trasmettono l'infezione, mi cadono le braccia». Il virologo Massimo Galli ha però riconosciuto che «i nuovi infetti sono molto più efficienti nel trasmettere le infezioni rispetto a quelli contagiati diverso tempo prima». Un tema, questo, al centro delle linee guida sulla fine dell’isolamento dei pazienti Covid pubblicate dall’Organizzazione mondiale della sanità il 17 giugno scorso. Nel documento si indica come tre giorni senza sintomi, dopo un periodo minimo di dieci giorni dalla loro comparsa, possano bastare per determinare la fine della quarantena, senza attendere il doppio tampone negativo. Questo perché, sottolinea l’Oms citando alcuni studi a riguardo, col passare del tempo la capacità di infettare sembra diminuire.
Sul concetto di debolmente positivo l’Organizzazione mondiale della sanità non si è però pronunciata. Anzi. «Rispetto alla nuova categoria dei debolmente positivi non entro nelle classificazioni e definizioni artificiose che colleghi insigni di varie discipline possono fare. Guardo i fatti e i fatti dicono che il genoma del virus è ancora lo stesso e che l’andamento di un’epidemia come questa è ampiamente previsto e prevedibile - ha dichiarato Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms -. C’è una discesa che coincide con l’estate. È vero che le terapie intensive si sono svuotate, ma si sono svuotate come previsto che accadesse e non vogliamo si riempiano di nuovo in autunno. Tutte le precauzioni che stiamo prendendo hanno l’obiettivo di circoscrivere la circolazione del virus quando questa riprenderà»
Prudenza, insomma, e un nemmeno troppo velato invito a evitare comunicazioni che possono abbassare la soglia di attenzione nei confronti del coronavirus, con comportamenti a rischio (che si vedono comunque piuttosto di frequente anche in un territorio particolarmente colpito come il nostro). Un concetto, quello della cautela, sostenuto anche da Franco Castelli, direttore dell’unità operativa Malattie infettive all’ospedale Civile di Brescia, in un'intervista al GdB: «Dobbiamo essere prudenti perché per conoscere il potere infettante di ogni persona con tampone positivo, bisognerebbe coltivare il virus in laboratorio perché l’infettività del Cornavirus, come di tutti i virus, dipende dalla dose».
Sempre a proposito di cautela, Enrico Bucci, ricercatore in Biochimica e Biologia molecolare e professore alla Temple University di Philadelphia, ha segnalato sul Foglio uno studio realizzato a New York su 205 pazienti e pubblicato sull’American Journal of Pathology. In questa ricerca «non è stata trovata associazione tra carica virale nel tampone e ammissione in terapia intensiva, durata della ventilazione assistita o probabilità di sopravvivenza», si legge nell’articolo. Non solo: «I pazienti ospedalizzati avevano una carica virale statisticamente più bassa di quelli meno gravi, non ospedalizzati. (...) In altre parole, secondo i dati discussi in questo lavoro, la carica virale al momento in cui si effettua un tampone non è predittiva di quanto succederà dopo, e di conseguenza non predice né l’evoluzione della malattia né l’eventuale infettività maggiore o minore del paziente in questione».
Senza contare che ci sono anche dei limiti tecnici rispetto all’affidabilità degli strumenti di analisi attualmente disponibili. «Il tampone nasofaringeo, si sa, non è il massimo dell’accuratezza. Essa varia dal 45 al 60% e dà risultati più affidabili nella prima settimana dall’esordio dei sintomi - scrive Luca Carra in un articolo su Scienza in rete -. Un tampone debolmente positivo potrebbe anche indicare un tampone malfatto, oppure un tampone eseguito su un infetto in via di guarigione, o ancora un tampone eseguito su un infetto asintomatico destinato a restare tale o ad ammalarsi».
Per concludere, citiamo un post su Facebook dell’epidemiologo Pierluigi Lopalco, capo della task force pugliese per l'emergenza Coronavirus. «I casi "debolmente positivi" sono contagiosi? Non lo sappiamo. Certamente - spiega - hanno particelle virali con capacità replicativa nel naso-faringe. Non è escluso che siano anche questi pazienti a mantenere attivo un certo reservoir virale anche in assenza di casi clinici manifesti. Dobbiamo continuare ad osservare il comportamento del Sars-CoV-2 e la sua capacità di interazione ed adattamento all'ospite. Nel frattempo le regole devono essere sempre le stesse: vigilanza da parte delle autorità sanitarie e prudenza da parte dei cittadini. Perché credo che a nessuno farebbe piacere trovarsi nei polmoni un virus debolmente positivo».
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