Coronavirus: il 25 aprile del Comandante Diavolo
Ha combattuto i nazifascisti e prima ancora era stato reduce della «Spagnola». Ma per Germano Nicolini, il «Comandante Diavolo», «il coronavirus è forse peggio della guerra, perché il nemico è subdolo, non si vede. Noi partigiani potevamo difenderci. E ci siamo difesi. Qui stiamo parlando un’epidemia che ricorda quella tra il 1918 e il 1920».
Considerato tra i migliori combattenti della Resistenza reggiana e italiana, medaglia d’argento al valore militare, compirà 101 anni il prossimo 26 novembre. Ma è ancora lucidissimo e con una memoria che va oltre il tempo. Nemmeno lui, grande stratega di tattiche in battaglia, poteva immaginare di doversi ancora nascondere da un altro nemico spietato, nel giorno della Liberazione, restando chiuso nella sua abitazione di Correggio, in provincia di Reggio Emilia.
«Lo celebrerò in casa come tutti - racconta parlando del 75° anniversario della Liberazione -, da tempo non sono più nelle condizioni di uscire ma ricevevo visite da parte di giovani e amici. Oggi non è così, ma la situazione richiede a tutti di essere responsabili. Vorrei anch’io avere a fianco i miei nipoti e mio figlio (Fausto, direttore generale dell’Ausl di Reggio Emilia, in prima linea contro la pandemia in ospedale, ndr). Non è possibile. Dobbiamo resistere. Una volta cantavo e mi dicevano che avevo anche una bella voce. Oggi ascolto quelli che cantano dal balcone, soprattutto i giovani».
E sulle polemiche politiche di questi giorni è una sentenza: «Strumentali e opportunistiche, stendiamo un pietoso velo di silenzio...».
Nicolini ricorda tutto nitidamente. Dalle battaglie vinte nel secondo conflitto mondiale fino a quei 10 anni trascorsi in carcere (poi nel ’94 ci fu la revisione del processo e venne risarcito dallo Stato), ingiustamente accusato di aver assassinato don Umberto Pessina, sempre nel Reggiano.
«Con autodisciplina e con la consapevolezza di essere nel giusto ho saputo mantenere quell’equilibrio che poi mi ha consentito, una volta uscito, di dedicarmi alla famiglia ed al lavoro, ma anche di continuare a lottare per quasi mezzo secolo per dimostrare la mia innocenza. Non è stato facile, ma ci sono riuscito», rivendica.
Infine «al dièvel» - come lo chiamano in dialetto reggiano - tiene a lanciare un messaggio: «Purtroppo la storia si ripete e gli uomini dovrebbero trarre sempre lezione dal passato per non commettere gli stessi errori. Erano altri tempi, c’erano altri mezzi. Oggi la scienza è più avanzata, ma comunque la salute collettiva e del pianeta sta nella consapevolezza e nella responsabilità dei comportamenti di tutti. Questa situazione prima o poi si risolverà: l’importante è che, anche da una tragica vicenda come questa, impariamo a migliorarci, come persone, come comunità e come nazioni. La democrazia non è una conquista certa per sempre, va coltivata e devono esserne sostenuti i principi, giorno dopo giorno, non solo negli enunciati ma anche e soprattutto nei comportamenti e nel rispetto di quei valori che ci hanno consentito di conquistarla 75 anni fa».
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