Caso Yara: 6 anni fa la scomparsa, venerdì la sentenza
Sono passati quasi sei anni da quel 26 novembre del 2010 in cui Yara Gambirasio, tredicenne, scomparve, inghiottita nel buio a poche centinaia di metri da casa sua, mentre rientrava dalla palestra di Brembate di Sopra.
Il primo luglio si avrà una prima risposta giudiziaria a una vicenda in cui si sono susseguiti l'angoscia di non avere sue notizie, la disperazione di averla trovata uccisa, tre mesi dopo, e la speranza per suo padre Fulvio e sua madre Maura di avere giustizia, con la scoperta del presunto colpevole. È quel Massimo Bossetti, muratore di 45 anni, sposato e padre di tre figli, per il quale, dopo due anni di carcere e uno di processo, il pm Letizia Ruggeri ha chiesto l'ergastolo e sei mesi di isolamento diurno. Bossetti che anche venerdì prossimo, prima che i giudici si riuniscano in camera di consiglio per emettere la sentenza, «parlerà col cuore», come dicono i suoi legali, e tornerà a proclamare la sua innocenza.
Quell’innocenza in cui non crede il pm Ruggeri («dall'imputato è venuto un tripudio di menzogne»): oltre alla «prova genetica», ovvero al dna che rappresenta «il faro dell'inchiesta», trovato sul corpo della vittima, per il pm, vi è «un corollario significativo» di indizi caratterizzati da «gravità, precisione e concordanza». I tabulati telefonici dell'imputato e le immagini dell'autocarro ripreso dalle telecamere di sorveglianza della zona, le fibre sul cadavere compatibili con quelle dei sedili del Fiat Daily del muratore. «Elementi che vanno letti complessivamente» e che dimostrano come «non cercammo di cucire addosso degli elementi, ma cercammo riscontri in quello che già c'era», aveva detto il pm.
Parole respinte quasi con sdegno dai coriacei difensori del muratore, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che parlano di un «processo in cui sono di più le anomalie dei marcatori» del Dna e che «non ha fugato i dubbi, anzi, li ha alimentati».
Per loro rimane «metà Dna e forse anche contaminato», perché «mai il signor Bossetti è potuto intervenire durante gli accertamenti, e non possiamo accontentarci di un atto di fede». Non è suo il furgone ripreso dalle telecamere di sorveglianza delle aziende di Brembate intorno al centro sportivo da cui scomparve Yara e, qualora fosse di Bossetti, il muratore, quel 26 novembre del 2010 sarebbe passato un quarto d'ora prima rispetto a quando uno dei genitori, che erano andati a prendere il figlio dalla ginnastica, vide la tredicenne che si dirigeva verso la porta della palestra per uscirne. Una «tortura» l'odissea giudiziaria del loro assistito, in carcere del 16 giugno del 2014.
Venerdì il verdetto dei giudici presieduti da Antonella Bertoja che le telecamere non potranno mostrare. Per ragioni di «tutela» dei giudici popolari, dopo che, nelle settimane scorse, due buste con dei proiettili erano state intercettate in un centro di smistamento postale: erano indirizzate a Corte d'assise e pm.
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