Antonio Pennacchi, il Fasciocomunista che vinse il Premio Strega
Operaio fino a cinquant’anni, attivo politicamente fin da ragazzo prima nelle file del Movimento sociale italiano e poi in quelle del Partito marxista-leninista italiano, Antonio Pennacchi - morto improvvisamente martedì 3 agosto, a 71 anni, nella sua casa di Latina - ha portato la sua energia e passione anche nella scrittura. Ma in occasione dell’uscita dell’ultimo libro, «La strada del mare» - pubblicato da Mondadori nell’ottobre 2020 - aveva detto in un’intervista all’Ansa: «A 70 anni ho perduto l’innocenza, ma anche gli entusiasmi e le speranze. Il miglior tempo mio se n’è andato. Mi restano gli anni della discesa e della riflessione. Nello scenario generale penso ci siano delle costanti storiche, metastoriche direi, rispetto alle quali chi è giovane oggi è come ero io giovane allora, pieno di speranza e di voglia. È il ciclo della vita. Le energie e gli impulsi vitali restano costanti. Cambiano gli scenari intorno, i contesti». E Pennacchi non aveva mai smesso di combattere per l’eguaglianza di tutti gli esseri umani, fondamentale in tutta la sua opera.
Nato a Latina il 26 gennaio 1950, Pennacchi si era laureato in Storia e filosofia durante un periodo di cassa integrazione. Aveva esordito come scrittore con «Mammut», uscito nel 1995, cui era seguito, nello stesso anno, «Palude. Storia d’amore, di spettri e di trapianti». Nel 2003 il romanzo autobiografico «Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi» aveva ispirato il film «Mio fratello è figlio unico» diretto da Daniele Luchetti. Il successo era arrivato nel 2010 con «Canale Mussolini», con cui Pennacchi aveva vinto il Premio Strega ed era entrato nella cinquina del Campiello. Nel romanzo ripercorreva la storia di una famiglia contadina, i Peruzzi, sradicata dalla sua terra d’origine nella Bassa padana per andare nell’Agro pontino. Su questa terra, bonificata dalla malaria negli anni del fascismo, eccol’arrivo di molti coloni dal Nord, emiliani, veneti e friulani, insieme ai Peruzzi, capeggiati dal carismatico e coraggioso zio Pericle, fascista.
A un nuovo capitolo della saga dei Peruzzi l’autore laziale era tornato con «La strada del mare», questa volta portandoci negli anni ’50 dell’Agro Pontino. Oltre al seguito di «Canale Mussolini» nel 2015, tra i suoi libri «Storia di Karel» (2013), «Camerata Neandertal. Libri, fantasmi e funerali vari» (2014). «Nella prima parte e nella seconda di "Canale Mussolini" ho raccontato le storie della mia famiglia, quelle che mi erano state narrate. Qui racconto le storie che ho vissuto direttamente» aveva spiegato a proposito di «La strada del mare». In questo suo ultimo romanzo storico e di formazione Pennacchi ha raccontato un ramo della famiglia Peruzzi, i Benassi. Quattro donne e tre maschi - Otello, Manrico e Accio - che sono gli stessi protagonisti del Fasciocomunista, ma negli anni Cinquanta, quando questi ragazzini crescono. Raccontare le cose che aveva vissuto direttamente era stato «più faticoso», perché - sottolineava l’autore - significa fare i conti con i fantasmi e i traumi dell’infanzia».
Del Covid diceva: «In quegli anni abbiamo avuto una cosa simile al Covid, che è stata l’Asiatica, che ha fatto 30mila morti in Italia e 22 milioni di contagiati. Però la affrontammo in maniera diversa, forse perché non avevamo la consapevolezza che abbiamo adesso e le informazioni. Chi campava campava e chi moriva moriva».
Pennacchi aveva scritto nel gennaio scorso una lettera aperta a Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, in cui sollecitava: «Ti prego: dite di sì all’unità nazionale. Dopo la Seconda guerra mondiale e quella di liberazione, le forze socialcomuniste e cattoliche seppero trovare quel minimo di concordia necessario a costruire assieme l’unità del popolo, una costituzione democratica e il conseguente miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta che portò l’Italia ad essere, dal Paese povero e sottosviluppato che era prima, la quinta o sesta potenza economica mondiale».
Certo, più volte, negli ultimi anni, Antonio Pennacchi aveva sottolineato che oggi abbiamo perso quella passione che c’era nella politica: «La gente pensava fosse giusto interessarsi della cosa pubblica. C’erano ancora le ideologie e, forse sbagliando, la certezza di costruire un mondo migliore. Questo lo abbiamo perso, ma è necessario recuperarlo».
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