Transizione 5.0: come sostenere le sfide del Paese

«L’obiettivo è ricreare un nuovo rapporto uomo-macchina-tecnologia» ha spiegato Giancarlo Turati, presidente di InnexHub
L'«Industria 4.0» aveva un gap strutturale: si era dimenticata l'uomo
L'«Industria 4.0» aveva un gap strutturale: si era dimenticata l'uomo
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Quali sono le leve per un Paese per crescere e portare benessere ai propri cittadini? Potrebbe sembrare una domanda retorica ma, se ci riflettiamo, è più che logica evitando di spersonalizzare la parola Paese con un qualcosa differente da: governo, cittadini, istituzioni, imprese.

Quindi se dovessimo fare una classifica ognuno direbbe le sue priorità. Ci provo anch’io in ordine di apparizione: visione sul futuro ed il ruolo che il Paese vuole avere nella comunità internazionale; politiche di incentivazione per trattenere giovani talenti; attenzione alla formazione /educazione dei giovani come priorità per la crescita; politiche di Welfare per aumentare la capacità lavorativa e la produttività; premialità per le imprese che innovano, che aumentano l’occupazione, che competono sui mercati esteri, che attuano politiche per la sostenibilità.

L’innovazione di pensiero

Manca qualcosa? Molto credo, ma penso che manchi all’elenco un punto fondamentale che mi sta a cuore: l’innovazione di pensiero. Per attuare reali politiche di sostegno e crescita servirebbe da tutte le parti una forte e ferma volontà di cambiare gli stereotipi, di alzare lo sguardo cioè per dirla alla Gullit: «per vincere le partite serve che i giocatori guardino il campo non la palla».

Alzare lo sguardo si ottiene quando si abbandonano i pregiudizi e le guerre di religione ideologiche per valutare seriamente l’utilità e la sostenibilità delle scelte che si fanno sia personalmente che comunitariamente.

E veniamo al punto: cosa rappresenta la transizione 5.0 italiana per le imprese italiane?

La mia risposta è netta: poco per come è scritta, pochissimo per la visione che la sostiene. In questo senso trova credibilità il concetto d’innovazione di pensiero perché dobbiamo guardare da dove è partita la teoria del 5.0 e perché è nata.

Prima di tutto diciamo che non è una novità, se ne parla dal 2015. Molti analisti si sono accorti che il «4.0» aveva un gap strutturale: si era dimenticata l’uomo. Infatti spingeva l’acceleratore sul rinnovamento di macchine, sul fatto che dovessero colloquiare con i sistemi informatici di gestione e finanza, sul fatto che i dati di produzione fossero fondamentali per attivare sistemi predittivi, per l’operatività in generale.

Benissimo, obiettivo raggiunto? Più o meno molte aziende hanno rinnovato i propri sistemi, non molte hanno poi sfruttato i dati per migliorare i processi rendendoli predittivi.

Cosa promette il 5.0? (non in Italia)

L’idea di «society 5.0», è nata per colmare il gap, riportare l’uomo al suo posto, ricreare un nuovo rapporto uomo-macchina-tecnologia con lo scopo di: migliorare i processi, aumentare la sicurezza, aumentare la produttività, diminuire la fatica fisica del personale, aumentare gli automatismi generati da robot in attività pericolose per l’uomo, rendere le imprese più sostenibili ed a misura della collettività generando benessere, occupazione e migliore qualità della vita.

Utopia? Può darsi ma è la via. L’intelligenza artificiale in quest’ottica aumenta la capacità lavorativa non la diminuisce.

Cosa abbiamo fatto in Italia?

Abbiamo concentrato l’attenzione negli incentivi alla sostenibilità energetica e sulla formazione dimenticando tutto il resto. Risultato? Una norma complessa, poco percorribile per le pmi, difficile da implementare tanto che il numero di progetti presentati è molto basso, se non imbarazzante.

Da un lato si invoca la neutralità tecnologica per la transizione green, dall’altro si entra nel merito di cosa sia innovativo e cosa non meritevole dando al risparmio energetico rilevanza enorme, ma tagliando fuori quelle imprese che consumano relativamente energia, ma producono valore ed innovazione.

In sintesi

Lasciate che le imprese provvedano a migliorare e innovare secondo le loro scelte e le loro priorità perché conoscono il mercato, i loro problemi e la loro forza lavoro. Premiamo chi innova, chi sostiene l’occupazione, chi rende la propria attività sostenibile a più livelli. Utilizziamo un sistema di misurazione che è quello che tutti conoscono: indice di produttività, livello di occupazione turn over, politiche di welfare, indice di export o di penetrazione nei mercati.

Cosi saremo pronti per la society 5.0 abbandonando l’idea di un Paese che invoca sconti e misure parziali, ma finalmente un Paese che crede nelle politiche industriali secondo una visione di progresso che mette in campo: tecnologie innovative, capacità di visione, attenzione ai giovani, la creatività del sistema produttivo.

Giancarlo Turati, presidente InnexHub

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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