Smart working: non basta cambiare modelli, è questione di testa
Serve una rivoluzione di testa più che di modelli. È il solo modo per dare un senso a ciò che stiamo vivendo. Per quanto interessante e provocatorio, non sarà lo smart working, di per sé, che cambierà il grigiore delle prevenzioni e delle paure in sospeso, né renderà automaticamente belle e innovative le nostre organizzazioni. Ma può insegnare che cambiare è possibile, e probabilmente anche molto interessante, così da ridare una dignità maggiore al lavoro, sfruttando quanto la vita, le relazioni e le emozioni di questi tempi hanno costretto tutti a capire.
Parte da qui l'analisi di Pier Luigi Celli, dirigente d'azienda di lungo corso, già ai vertici Rai, Eni, Enel, Olivetti, Wind, Omnitel, UniCredit, oggi presidente di Sensemakers, nel suo saggio «La vita non è uno smart working», sottotitolo «Ma le imprese possono imparare a non perdere l'occasione» (ed. Este,. pp. 160 - 20 euro). Non l’ho letto ma lo segnalo perché Celli è uno che vede lontano.
Seconda segnalazione della settimana su smart working. Google e Microsoft stanno richiamando gente da casa. La pandemia (in Usa) è sotto controllo, si può tornare in sede, almeno un po’. Il futuro del lavoro non sta solo dentro casa. Notizie consolanti. Ma gratta gratta c’è un aspetto che le aziende stanno riscoprendo: il lavoro da casa è meno produttivo di quanto appaia ma, e forse soprattutto, è meno creativo. L’ideazione arriva in primo luogo dove ci sono legami deboli (come in azienda) e non dove abitano legami forti (a casa nostra). Meditate gente, meditate...
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