Il caso Ori Martin: l'acciaio si fa verde e sfida gli stereotipi
È sicuramente uno dei settori più complessi da migliorare sul fronte della sostenibilità ambientale ma, di fronte alla sfida lanciata dell’Unione Europea, la filiera siderurgica bresciana non si è certo tirata indietro.
Lo dicono i numeri e lo conferma Giovanni Marinoni, vice presidente del colosso cittadino Ori Martin, moderna acciaieria a forno elettrico con quartier generale a Brescia, all’incontro inaugurale del ciclo «Pratiche di sostenibilità», promosso dall’Osservatorio per il territorio (OpTer) e dall’Alta scuola per l’ambiente (Asa) dell’Università Cattolica di Brescia.
«Noi non estraiamo metalli, al contrario la nostra forza è il recupero di questi ultimi, di residui di lavorazioni meccaniche e di rifiuti come gli elettrodomestici -spiega Marinoni -. Il 90% delle risorse impiegate per la produzione di acciaio corrisponde quindi a materia riciclata: re-immettiamo nel ciclo produttivo ciò che sarebbe destinato alla discarica».
Non solo: dall’impianto che preriscalda questi rottami derivano fumi caldi tra i 1000 e i 1200 gradi che l’azienda ha pensato bene di non disperdere, convertendoli in energia elettrica. Il progetto, frutto di anni di studio al fianco di A2A e di uno spin off dell’Università Bocconi, ha avuto come output finale la realizzazione di uno scambiatore termico con cui l’azienda produce quantità di calore pari al consumo annuale di 2mila famiglie. «Una sorta di "calorifero" da 12 milioni di euro - scherza Marinoni -, e il calore recuperato lo cediamo ad A2A. Anche Alfa Acciai, altro grande player bresciano del settore, ha adottato la nostra tecnologia e noi ne siamo ben contenti poiché sono queste best practices a rendere Brescia una smart city».
Se nel caso dei rottami e del calore, lo scarto di produzione di uno diventa risorsa preziosa per l’altro, un capitolo spinoso riguarda le polveri sottili (che in realtà, differentemente da quanto si crede, sono prodotte per la stragrande maggioranza da riscaldamento, agricoltura e zootecnia). Su questo fronte Ori Martin stanzia annualmente diversi milioni di euro per la manutenzione dei filtri destinati all’abbattimento del particolato fine. Questa prassi ha permesso all’azienda di attestarsi al di sotto del 95% rispetto ai limiti di legge, «il tetto massimo previsto dall’UE è del 5%, noi siamo allo 0,3%» riporta Marinoni.
Capitolo acqua: in Ori Martin passa attraverso un impianto di raffreddamento e viene recuperata per osmosi, permettendo di ridurre i consumi «dal 30 al 64% per tonnellata di produzione, a seconda degli stabilimenti». Sul fronte dell’inquinamento acustico l’azienda bresciana ha investito 1,5 milioni in un impianto di coibentazione, in grado di isolare sonorità moleste per il vicinato La piantumazione di alberi nell’area verde del quartiere di San Bartolomeo fa in modo invece che i residenti non debbano fare i conti con la vista dello stabilimento, mentre sono oltre quattro i milioni investiti nel 2020 per la realizzazione di un impianto fotovoltaico da 53 Mw che ha permesso di risparmiare oltre 130mila tonnellate di CO2.
Insomma, la green way del colosso siderurgico bresciano pare tracciata e anche se «molto si può ancora fare per migliorare un settore che nel mondo è attualmente composto per il 40% da stabilimenti alimentati ad energia elettrica, ma per il 60% ancora a carbone» lo stereotipo generalizzato dell’acciaieria «brutta, sporca e cattiva» si candida ad essere più che altro dettato dalla complessità di raccontare processi difficilmente sintetizzabili in claim pubblicitari.
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