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Foti: «Riallocare i fondi Pnrr che non sono stati spesi»

Anita Loriana Ronchi
Il ministro per gli Affari europei ha partecipato a un incontro a Futura 2025 con Andrea Prete, Marco Nocivelli e Paola Rusconi
Tommaso Foti - Foto New Reporter Favretto/Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Tommaso Foti - Foto New Reporter Favretto/Nicoli © www.giornaledibrescia.it
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Ora, a bocce ferme, lo si può dire. Non tutte le misure del Pnrr hanno avuto lo stesso successo e, soprattutto, a non aver funzionato è il piano Transizione 5.0, a causa dei molti lacciuoli procedurali che, anche recentemente, sono stati oggetto di trattative con la Commissione europea.

Non ha remore ad ammetterlo il ministro per gli Affari europei, Politiche di coesione e Pnrr, Tommaso Foti, al convegno «Il ruolo del Pnrr per il rilancio della manifattura italiana», cui sono intervenuti con il coordinamento di Luca Orlando del Sole 24 Ore anche Andrea Prete, presidente UnionCamere; Marco Nocivelli, vice presidente Confindustria; Paola Rusconi, senior director coordinamento marketing e business development imprese intesa Sanpaolo.

Cartina di tornasole, come spesso accade, sono i numeri: su 6,5 mld stanziati per Industria 5.0, ad oggi sono stati spesi 450 mln (meno dell’8%). Altre iniziative, invece – osserva il ministro –, come i contratti di sviluppo, sono andate molto meglio. «Dei 194 miliardi previsti dal Pnrr, al 31 dicembre scorso sono stati certificati 62,2 miliardi di spesa, tenendo conto che parte delle attività è partita a metà 2024 dopo una lunga progettazione».

La riallocazione

Resta, l’equazione matematica: le misure più semplici, ed orientate verso temi come innovazione e digitalizzazione, funzionano; di contro, quelle più complesse anche se con eguali obiettivi, sono destinate ad incepparsi. Transizione 4.0 docet: 13,3 mld, più altri 5 del Piano nazionale complementare, sono andati esauriti.

«Occorre fare una riprogrammazione – annuncia il ministro –: i fondi potranno essere allocati altrove, per le imprese, con misure simili a quelle prospettate seppur con parametri diversi. Alla prova dei fatti, abbiamo visto che le risposte sono state diversificate». Sui 130 miliardi ancora mancanti per il target del Piano nazionale di ripresa e resilienza, bisognerà capire se rimarranno attorno allo stesso sistema oppure oggetto di un «rimescolamento». Foti al riguardo rassicura: «Dagli incontri con i ministri competenti, è emerso che il 90% delle somme vogliono sia tenuto all’interno delle proprie aree».

Programmazione

«L’importante – rileva Nocivelli – è che si facciano le cose per le imprese, che hanno bisogno di una visione a lungo termine di almeno tre anni, non a 10 mesi e avendo ora davanti un baratro; se bisogna far partire un ordine, occorre anche un anno di programmazione. L’Europa ci dice che al 31/12 il piano 5.0 finisce: ma perché noi come Paese non proseguiamo e, se non si chiameranno fondi europei, si chiameranno fondi italiani».

L’impatto del Pnrr (che ha scadenza al 30 giugno 2026) sul futuro della manifattura convince fino ad un certo punto. «Se fossimo a scuola, il voto sarebbe 6» asserisce il vicepresidente nazionale di Confindustria. Intanto, sulle sorti dell’industria nazionale si addensano le nubi dei dazi evocati dall’amministrazione Trump, che già stanno manifestando le prime conseguenze sull’export (considerato che gli Usa sono il nostro secondo mercato di esportazione), mentre ancora non si è stabilizzato il contesto geo-politico internazionale. A pagare maggiormente sono le pmi il cui fatturato, ricorda il presidente UnionCamere, è passato negli ultimi 10 anni quanto a incidenza dal 49% al 42%. 

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