Fast fashion, se la moda usa e getta mette a rischio il Pianeta e le persone
Le distese di vestiti abbandonati, si pensi per esempio al deserto di Atacama in Cile, sono solo la punta dell’iceberg di un sistema, quello della fast fashion, che impatta enormemente sull’ambiente.
Ma cosa intendiamo quando parliamo di fast fashion? Semplificando si tratta di un settore del mondo dell’abbigliamento, ma anche dell’accessoristica, che propone prodotti a prezzi bassissimi e con un ricambio di fogge e stili a cadenza strettissima. I nomi dei big di questo comparto sono molto noti e i volumi di vendita sono da capogiro. Si stima che nel 2022 abbia raggiunto la quota di 100 miliardi di dollari di valore, con la prospetta di superare i 130 miliardi entro il 2026. A questi dati economici fanno però da contraltare altre cifre e cioè quelle relative all’impatto ambientale che la moda usa e getta ha sul Pianeta e sulle persone che lo abitano.
Il rapporto
Secondo il rapporto «Global Fashion: Green is the new black» (realizzato dalla banca Barclays) per produrre una maglietta di cotone servono circa 2.700 litri di acqua, quantità media bevuta da una persona in 3 anni. Per un paio di jeans ne servono invece 7mila. Se si analizzano invece cifre di più ampio respiro si stima, sempre secondo il rapporto, che la fast fashion sia responsabile del 10% dell’utilizzo globale di acqua nell’industria e che produca il 10% delle emissioni globali di gas serra. Oltre a ciò solamente l’1% dei vestiti vieni riciclato per realizzarne di nuovi.
E i principali materiali impiegati per la produzione sono il poliestere, derivato del petrolio, e il cotone: oltre a minare gli ecosistemi naturali e sociali, la coltivazione estensiva di questa pianta è direttamente responsabile dell’utilizzo del 16% di tutti i pesticidi usati in agricoltura a livello globale. Ma al di là degli aspetti strettamente ambientali, il tema sostenibilità, o violazione dei suoi principi, viene nuovamente chiamato in causa.
Prezzi bassi
Il tema dello sfruttamento del lavoro in quelli che vengono definiti Paesi in via di sviluppo è infatti centrale, tenendo conto che il costo per la produzione di 10 magliette è stimato in 5,34 euro. Inevitabilmente la spesa contenuta è collegabile al basso costo della manodopera, con le persone che spesso lavorano più di 12 ore al giorno a salari bassissimi.
«Lavoravo per un’azienda della fast fashion e chiesi di poter visitare una fabbrica cinese di un celebre marchio - racconta Alessandro Armillotta, creatore dell’app AWorld, partner ufficiale della Cop27 delle Nazioni Unite -. Qui ho visto turni di lavoro da 15/18 ore, totale assenza di tutela sindacale, letti costruiti sopra le postazioni di cucito, fiumi che cambiavano colore a seconda del capo d’abbigliamento che veniva tinto. Tutto ciò mi ha spinto ad abbandonare la posizione e a fondare un’app che stimola le persone a promuovere la sostenibilità con azioni pratiche».
Un esempio simile di «redenzione sulla via di Damasco» è quello di Matteo Ward, cofondatore e ceo della startup di moda sostenibile Wråd, anch’egli con un passato nella fast fashion. «Siamo una delle industrie più inquinanti a livello globale, ma siamo un’industria non essenziale - ha commentato durante il Festival dello Sviluppo Sostenibile 2022 -. Rubiamo energia, acqua, terra, risorse preziose per garantire la vita sul Pianeta, per fare magliette, jeans e pantaloni che, tolta la funzione psicologica e culturale, sono inutili in questa quantità».
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