Da Brescia alla Nasa, pronta al messaggio: «Houston qui Marte»
«Lo senti il rumore? Guarda come sale… come sale! Dio, ci vorrebbe Omero per descrivere quello che vedo! Oh, che cosa stupenda... si alza così lentamente... va sulla Luna... la Luna». Sembra quasi di sentirla Oriana Fallaci, quando il 16 luglio del ’69 descriveva in diretta la partenza di Apollo 11 al telefono con la redazione de «L’Europeo». Chissà cosa avrebbe detto del volo su Marte di quest’anno. E come avrebbe preso la notizia che a tenerne le fila c’è anche un’italiana. Una bresciana, per l’esattezza.
Si chiama Alessandra Babuscia e dal 2013 è ingegnera delle telecomunicazioni al JPL, il Jet Propulsion Laboratory della Nasa a Pasadena, in California. Con un dottorato e un post-doc al Massachusetts Institute of Technology, al suo attivo ha già tredici missioni, che ha sempre seguito da terra «per verificare che fosse tutto ok con l’invio e la ricezione dei dati». La raggiungo in videochiamata, io in studio, lei in salotto: «Sono in smart working ormai da un anno, anche se sono considerata personale critico per Mars 2020 – mi dice subito –. Però ho mia figlia di tre anni a casa, preferisco così».
La sua giornata tipo attuale è scandita dall’organizzazione di due missioni: Clipper, che esplorerà la luna di Giove, e Veritas, ora in fase di concorso, che realizzerà la più grande mappatura di Venere e che la vede capo ingegnere per le telecomunicazioni in tandem con l’Agenzia Spaziale Italiana. E ovviamente Mars 2020, che richiede «un’attività continua – spiega –. Adesso abbiamo turni 24 ore su 24 perché siamo nelle prime fasi e dobbiamo fare controlli costanti: riceviamo i dati dai satelliti che orbitano Marte, con i quali comunica il rover, li raccogliamo e li diamo agli scienziati, che decidono come procedere. E così via nei prossimi anni».
Donna, immigrata e capo team: Alessandra Babuscia è arrivata alla Nasa contro tutti gli stereotipi possibili. «È sempre stato un mio sogno nel cassetto – racconta –. Dopo la laurea al Politecnico ho fatto domanda all’Agenzia spaziale europea, ma poi ho deciso di andare al Mit. Ed è stato proprio a Boston che ho iniziato a lavorare a un progetto finanziato dal JPL. Così nell’estate 2009, tramite il mio professore, ho ottenuto il primo tirocinio alla Nasa». Da lì in poi è stata una scalata: il post-doc, poi il gruppo di ricerca al JPL e poi la chiamata per seguire le missioni di volo.
E questo nonostante «non sia semplice lavorare nell’aerospazio da stranieri, perché le leggi americane limitano l’accesso ai dati a chi non è cittadino. Tanto che, finché non ho ottenuto la green card nel 2019 (l’autorizzazione a risiedere negli Usa, ndr), per ogni progetto bisognava chiedere una licenza nuova. E tutti ormai in agenzia sanno chi sono solo per il numero di licenze che ho accumulato!». Oggi l’ingegnera bresciana è di casa alla Nasa, o meglio, la Nasa è di casa da lei, che si destreggia fra i compiti da mamma e le attività spaziali infilate all’alba e di sera tardi. Del suo lavoro ama tutto: «È vero, qualcuno pensa che una donna non dovrebbe fare questo mestiere, ma nessuno è mai venuto a dirmelo in faccia. La cosa bella dell’America è che le persone ti giudicano per quello che fai. E se riesci a ottenere un’occasione, puoi arrivare fino su Marte».
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