Economia

Welfare e occupazione femminile: Brescia può (e deve) fare di più

Nella nostra provincia la media nella fascia 15-64 anni è più alta rispetto a quella nazionale, ma più bassa rispetto a quella regionale
Occupazione femminile: Brescia è sotto la media lombarda
Occupazione femminile: Brescia è sotto la media lombarda
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Il dato di partenza è buono, ma si può fare meglio. A Brescia il tasso di occupazione femminile è più alto rispetto alla media nazionale, ferma al 50%, ma più basso rispetto a quella regionale, che si attesta al 60,4%: nel Bresciano, nella fascia 15-64 anni, le donne lavoratrici erano nel 2022 il 54,2% (dati Istat). A livello regionale è stato recuperato quanto perso in pandemia, mentre a livello locale ancora non ci siamo.

Effetto Covid

Nel 2019 il tasso di occupazione femminile nella nostra provincia superava il 56% e mancano dunque ancora un paio di punti percentuali per tornare a quel dato.

Sappiamo che il Covid ha modificato significativamente il mercato del lavoro andando a colpire più duramente le donne, le prime a uscire e le ultime a rientrare nel sistema, spesso in forma precaria o part time.

Un problema economico, ma anche culturale: la divisione dei ruoli in famiglia, con le donne a farsi carico dell’accudimento tanto dei bambini quanto degli anziani, si riflette anche sul mercato del lavoro, con più figure femminili attive soprattutto nell’ambito dei servizi socioassistenziali e dell’insegnamento.

Servizi e Pnrr

Si ragiona spesso sulla connessione tra occupazione femminile e servizi, in particolare per quel che riguarda le neomamme, le più in difficoltà nel tornare al lavoro riuscendo a conciliare le nuove esigenze della famiglia.

I dati dimostrano che dove ci sono più posti negli asili nido (nel Bresciano siamo fermi al 25% di posti disponibili per bimbi tra 0 e 2 anni, l’Europa chiede che si arrivi al 33%), per esempio, è più alto il tasso di occupazione femminile.

Il Pnrr ha tra i suoi obiettivi quello di potenziare l’offerta pubblica, ma anche il privato è incentivato a fare la sua parte: tra gli strumenti c’è la certificazione di genere delle imprese, che ha l’obiettivo di «avviare un percorso sistemico di cambiamento culturale nelle organizzazioni al fine di raggiungere una più equa parità di genere».

Mancano i dati

Capire da dove partiamo sul fronte dell’impegno delle aziende nel Bresciano non è semplice, perché mancano dati precisi e puntuali su ciò che viene fatto in termini di orario flessibile, part time per i dipendenti maschi, nidi aziendali e smartworking.

Sappiamo che Confindustria Brescia dal 2017 ha attivato la piattaforma «Welfare con Noi», utilizzata da oltre 600 imprese per erogare misure particolarmente apprezzate dai lavoratori in chiave work-life balance come flessibilità, part time, turni agevolati per gestire la genitorialità o l’accudimento di persone anziane, smartworking, asili o convenzioni per i campi scuola.

Uno strumento simile viene utilizzato anche dalle aziende associate a Confartigianato: 120 quelle che negli ultimi tre anni hanno investito sul welfare circa 500mila euro a beneficio di più di 800 lavoratori.

Le ricadute del welfare

Di certo c’è che un più alto tasso di occupazione femminile non fa solo bene all’economia, ma valorizza anche il ruolo sociale delle donne.

L’obiettivo, prima che economico, deve essere culturale: sgravi fiscali o incentivi all’assunzione di lavoratrici non sono sufficienti a scardinare il paradigma che vede più la donna farsi carico della conciliazione tra famiglia e lavoro. Politiche di welfare indipendenti dal genere, al contrario, danno la possibilità e stimolano anche gli uomini a prendersi cura della famiglia.

«Più c’è lavoro e più c’è domanda di servizi, più c’è domanda di servizi e più c’è lavoro: è un circolo virtuoso» spiega Ivana Pais, professoressa ordinaria di Sociologia economica nella facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Milano e di recente ha mappato i provider di welfare aziendale, ovvero quei fornitori esterni di servizi a cui il lavoratore può accedere trovando voucher da spendere sulla base di accordi aziendali. «Su 110 piattaforme mappate - spiega - solo poco più di una decina offre servizi di tipo educativo, sanitario o socioassistenziale».

Ivana Pais, professoressa di sociologia economica all'Università Cattolica di Milano
Ivana Pais, professoressa di sociologia economica all'Università Cattolica di Milano

Su questo fronte, dunque, il potenziale del welfare «da spendere» non viene sfruttato al meglio. «I fringe benefit, i compensi in forma non monetaria - argomenta Pais - sostengono le spese famigliari. Per esempio, è più comodo e veloce spendere voucher di piccole cifre per pagare abbonamenti digitali o la spesa al supermercato. Sono soldi che rientrano ogni mese nel bilancio di una famiglia e che verrebbero spesi indipendentemente dai voucher aziendali».

Investire sui servizi socio-assistenziali

Il risultato sarebbe però diverso se immaginassimo misure dedicate al rafforzamento dei servizi socio-assistenziali: «Se spingessimo sul sostegno ai servizi - spiega ancora la professoressa Pais - avremmo ricadute sull’occupazione femminile. Se cioè i voucher dovessero essere spesi necessariamente - poniamo - per un asilo, la famiglia continuerebbe comunque a fare la spesa, ma sarebbe più incentivata a iscrivere i propri figli a un nido: in questo modo sarebbe più probabile che a lavorare fossero entrambi i genitori. Senza contare che frequentare l’asilo fa bene ai bambini stessi: ricerche svolte nel Nord Europa mostrano infatti come la frequenza del nido gli consenta di avere più opportunità nel corso della vita e riduca le diseguaglianze tra famiglie disagiate e non».

Se l’obiettivo volesse essere quello di incentivare l’occupazione femminile, avrebbe dunque senso spingere le risorse delle aziende private su quei servizi che riguardano i compiti di cura che gravano più sulle donne, in particolare «quei servizi socio-assistenziali che ha più senso siano detassati perché compensano ciò che manca a livello pubblico» sottolinea Pais, come i posti negli asili nido o nelle residenze per gli anziani.

C’è poi in questa chiave un ulteriore risvolto, non economico ma non per questo meno importante: accanto al welfare e alla conciliazione, strumenti come il congedo di paternità obbligatorio e la certificazione di parità di genere «diventano utili per aumentare la condivisione dei compiti di cura. Culturalmente si tratta di un passaggio chiave - conclude la professoressa Pais - per cambiare la prospettiva in un’ottica di parità di genere».

L'attrattività delle imprese

E il welfare influenza anche la capacità attrattiva dell'azienda: «Oggi non è l'impresa a scegliere lavoratore, ma è il lavoratore a scegliere l’impresa». Il paradigma sta cambiando, come sottolinea Roberto Zini, vicepresidente di Confidustria Brescia con delega al Welfare, convinto che oggi, con un mercato del lavoro sempre più in difficoltà nel trovare specifiche figure professionali, la capacità di un’azienda di proporre politiche di conciliazione faccia la differenza.

Il work-life balance «oggi è dirimente - prosegue Zini -: determina la capacità non solo di attrarre i lavoratori, ma anche di riuscire a tenerli all’interno dell’azienda».

Il welfare apre anche il tema della condivisione dell'impegno famigliare
Il welfare apre anche il tema della condivisione dell'impegno famigliare

Un cambio di prospettiva circa le priorità di dipendenti e imprese accelerato dalla pandemia: «Favorire la dimensione nuova del lavoratore fa la differenza, l’obiettivo deve essere quello di lavorare bene e vivere bene. Più che conciliazione, infatti - dice ancora il vicepresidente -, il tema è quello di trovare il giusto equilibrio, tenuto conto che nei vari momenti della vita di ognuno ci sono diverse situazioni da gestire. Ci sono per esempio i genitori che devono seguire il percorso scolastico dei figli, ma anche i caregiver che devono occuparsi dell’assistenza agli anziani».

La flessibilità è dunque cruciale, e l’utilizzo della tecnologia durante i mesi del Covid ha offerto un nuovo strumento alle aziende che devono ripensarsi anche in termini di spazio e tempo. Anche qui c’è un paradigma che deve cambiare: «La misurazione degli obiettivi - ricorda Zini - deve basarsi sempre più sul raggiungimento dei risultati e meno sul tempo passato alla scrivania dell’ufficio». Welfare e contrattazione di secondo livello sono gli strumenti a disposizione delle aziende per attivare politiche di conciliazione che siano su misura, in base al tipo di attività e al numero di dipendenti. «Il 70% delle nostre imprese ha aperto un canale di welfare - conclude Zini -, ma noi stiamo spingendo perché questo numero aumenti».

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Asilo nido aziendale? Flessibilità in entrata e/o in uscita? Stabilizzazione del contratto dopo una maternità? Se nell’azienda in cui lavorate sono attive particolari misure di conciliazione vita-lavoro, scriveteci all’indirizzo mail gdbweb@giornaledibrescia.it
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Allo stesso modo, se avete suggerimenti su come affrontare il tema del work-life balance potete inviarci le vostre proposte o le vostre domande.

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