Una vita per il lavoro: le ultime stufe di Gino Massetti
Sarà che la nostra generazione di millennial ingrigiti ha la schiena di cristallo, mentre attorno il dibattito pubblico è dominato da sussidi di cittadinanza, pensioni da anticipare, gente che sta sul divano o fa le spese immorali all’Unieuro: insomma, di lavoro vero e proprio si parla poco.
Perciò, quando Gino Massetti sospira guardando nel vuoto, dopo averci raccontato che per dormire deve prendere le gocce, ora che ha chiuso la sua azienda di stufe, un po’ non lo capiamo. Ha ottantacinque anni, lavora in proprio da quando ne ha diciassette, potrà godersi un po’ di riposo? Lui ci guarda come se non avesse capito la parola. «Riposo», ripetiamo, starsene tranquilli. Niente, ha il magone, ripete tra l’italiano e il dialetto bresciano. Stare senza nulla da fare non è un’opzione.
In Borgo Trento, dove ha prodotto per circa settant’anni stufe a legna, a metano e termoconvettori, arriverà un meccanico di bici e motorini, Baccanelli. Massetti sta sgomberando il suo regno, mentre la moglie Emilia risponde alle chiamate dei clienti, spiegando che l’attività è chiusa. È di un anno più giovane del marito, «dopo che ci siamo sposati, nel 1961, è entrata in ufficio», dice Gino. «E ha iniziato a comandare», strizza l’occhio. Coppia nella vita, coppia sul lavoro, si concedono ogni anno un viaggio di un paio di settimane tra Lourdes, San Sebastian, Bilbao e altre amenità spagnole per il loro anniversario. Sempre in auto, guida solo lui.
Le stufe, le stufe. Che è il motivo per cui siamo entrati nella casa-magazzino-ufficio, senza divisioni nette. Il simbolo MG con la corona in testa lo disegnò lui, che aveva imparato dallo zio l’arte del riparare le stufe e poi si era messo a produrle. All’inizio tutto solo, costruendone una alla settimana. Poi, complice il metano, arrivarono i macchinari e gli operai, che divennero una decina negli anni di maggiore sviluppo, tra i Settanta e gli Ottanta. «Siamo arrivati a produrre cinquemila stufe all’anno, vendendole tra Italia, Croazia e Slovenia», e intanto attraversa quello che un tempo era il laboratorio, al pian terreno, per poi portarci in soffitta, dove c’era uno dei magazzini.
«Il sabato ero sempre al lavoro, a volte anche la domenica mattina. Avevamo una tradizione: a Santa Lucia iniziavamo la produzione per l’anno successivo». Perché proprio il 13 dicembre? Stringe le spalle e sorride: «Così». Molto bresciano. Ad un certo punto anche uno dei tre figli entrò in azienda, ma poi scelse altre strade. E da lì partì il lungo lavoro per convincere il padre a lasciare.«Ci hanno messo anni, adesso ce l’hanno fatta. Ma proprio non vorrei. La richiesta c’è ancora, anche se i paesi dell’Est, come l’Ungheria, ci hanno fatto concorrenza. Il problema è che oggi non c’è più convenienza, i grossisti non ritirano più l’intera produzione in blocco, il magazzino resta a noi e ci paghiamo sopra le tasse».
Abbiamo amato le Mg come ricordo d’infanzia, dalla nonna, la luce azzurrognola del gas visto attraverso il vetro smerigliato. All’esterno, il metallo color caffelatte. Sempre quello, un marchio di fabbrica. Poi però ne vediamo una verde, tra le ultime cose rimaste in magazzino. «È una delle prime che ho prodotto. L’ha trovata mio figlio in discarica, l’ha sistemata e me l’ha regalata».
Leggiamo l’etichetta rossa: «Supercalt - Massetti Gino - Brescia». Supercalt? «Sì, mi serviva un nome, ho mescolato un po’ italiano e dialetto. Che poi kalt vuol dire freddo, in tedesco. E chi lo sapeva!», dice riaccompagnandoci verso l’ascensore. Di fronte alla porta in metallo cede il passo: lo vediamo guardarsi attorno e aggrottare le sopracciglia. E poi spegne la luce.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato