L'indagine di Apindustria: lavoro agile per un'impresa su due
Per molte aziende optare per lo smart working durante il lockdown non è stata una scelta ma una necessità. Ora, con la lucidità della distanza temporale e la ripresa delle attività, è possibile tracciare un bilancio di ciò che è stato e soprattutto sarà di questa modalità di lavoro.
L’indagine svolta dal Centro studi di Apindustria Brescia restituisce un quadro che mostra alcune evoluzioni, passi in avanti, forse un po’ timidi, sul fronte della digitalizzazione del lavoro, sebbene permangano resistenze e soprattutto carenze sistemiche. Interpellando 100 imprese iscritte all’organizzazione, principalmente di medie dimensione (dai 10 ai 49 dipendenti) e per il 70% dei settori metalmeccanico e produzioni meccaniche, «emerge come prima del lockdown il 79% delle aziende non avesse intenzione di adottare lo smart working all’interno della propria realtà - spiega la responsabile del Centro studi Maria Garbelli -. Questa percentuale è scesa al 55% al termine del periodo di chiusura».
Ciò significa che il 45% del campione ha applicato o applicherà forme di lavoro «smart», arrivando in alcuni casi (anche se solo per il 2% delle aziende) a coinvolgere il 70% del personale. Le figure interessate sono in larga misura quelle legate agli ambiti amministrativi e di gestione con una sostanziale uniformità tra donne e uomini, a fronte invece di un evidente bassissimo utilizzo per gli operai data la necessità di stare a contatto diretto con le macchine. Questo particolare può spiegare in parte l’ancora alto numero di imprese che non ricorreranno allo smart working.
A destare qualche preoccupazione sono però i dati che parlano dei limiti percepiti in relazione a tale modalità. Per il 56% degli intervistati la mancanza di relazione tra i dipendenti rappresenta l’ostacolo principale. «Ancora più preoccupante però è il 39% relativo alla limitata o totale assenza di un’adeguata connessione ad internet - sottolinea il presidente di Apindustria Brescia Douglas Sivieri -, una percentuale che racconta chiaramente di una carenza del Sistema Italia nel suo complesso, incapace di mettere a disposizione un’infrastruttura digitale». La criticità «si riflette anche sul mondo dell’istruzione - aggiunge Sivieri -, perché se fanno fatica i genitori a lavorare col pc da casa, immaginiamoci per i figli quanto sia difficile stare al passo con una didattica che viaggia sul web».
Non tutto però è a tinte fosche. Lo smart working ha fatto emergere anche vantaggi, sia per i dipendenti utilizzatori (non interpellati direttamente) sia per le aziende: entrambe le parti hanno infatti tratto beneficio in termini di produttività, motivazione e continuità lavorativa. Grosse differenze sulla capacità di autogestione: il personale ha giudicato positivamente l’apporto della modalità, cosa che invece non è emersa per quanto riguarda la direzione d’impresa nel suo complesso. «C’è però un ultimo aspetto che vale la pena sottolineare ma che esula dai dati in sé e per sé - conclude il presidente di Apindustria -, cioè la grandissima velocità con la quale le aziende hanno risposto al questionario da noi inviato. Ciò palesa un elevato interesse per l’argomento e perciò una paura, più o meno manifesta, di una nuova possibile chiusura delle attività».
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