La direttiva «ammazza stalle» dopo lo stop fa ancora discutere
Sotto il cappello del Green Deal è compresa un’ampia gamma di norme e proposte legislative, accomunate dall’obbiettivo di raggiungere la percentuale di zero emissioni di gas serra sul continente entro il 2050. Le scadenze e le modalità di questo composito piano, sul quale l’Europa ha puntato fortemente sono però al centro di un vivace dibattito, che contrappone da un lato le necessarie misure a difesa dell’ambiente, dall’altro le preoccupazioni di chi chiede che si proceda di pari passo con la tutela degli interessi economici.
Le associazioni
Uno degli ambiti produttivi più coinvolti è quello agroalimentare, com’è noto di grande importanza per l’economia del Bresciano. Qui il settore è in subbuglio da mesi, in contrasto con alcune proposte a dire degli agricoltori eccessivamente penalizzanti per il settore. L’ultima alzata di scudi ha riguardato la norma ribattezzata in modo colorito «ammazza stalle», con cui la Commissione proponeva l’applicazione dell’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), solitamente riservata a grandi fonti di emissioni inquinanti, alle stalle con oltre 150 bovini.
l Parlamento europeo ha bocciato la «direttiva emissioni» l’11 luglio scorso, ma il dibattito non si è concluso, con il Consiglio che ha proposto di alzare la soglia a 350 capi: attorno a questa cifra verterà nei prossimi mesi il trilogo.
«Il provvedimento era inserito in una direttiva che riguardava le emissioni industriali», ha spiegato venerdì scorso l’eurodeputato della Lega Marco Zanni, presidente del gruppo parlamentare Identità e Democrazia, in un dibattito pubblico che si è tenuto a Castrezzato insieme ai due vicepresidenti bresciani di Coldiretti e Confagricoltura. «Di fatto - ha continuato -, si paragonavano gli allevamenti sopra i 150 bovini a grandi industrie, prevedendo per i primi gli stessi iter burocratici e normativi di queste: a nostro avviso si trattava di un errore. Ma anche il nuovo limite del Consiglio è rischioso: in un ambito così competitivo, c’è bisogno di dimensionalità perché queste imprese siano redditizie. C’è il pericolo di una frammentazione dannosa, con il proliferare di tante piccole stalle».
Il vicepresidente di Coldiretti Brescia Giovanni Martinelli, come il suo omologo di Confagricoltura Oscar Scalmana, ha condiviso le preoccupazioni su quest’aspetto del Green Deal e ha ne ha delineato le possibili conseguenze: «Nella nostra provincia il decreto “ammazza stalle” riguarderebbe più della metà degli allevamenti -ha detto , con più burocrazia e più costi».
Non solo
Ma non c’è solo l’«ammazza stalle» a turbare gli agricoltori. Del pacchetto «Green Deal» fanno parte infatti altre due proposte controverse per il mondo agricolo. Una è il dimezzamento dell’uso dei pesticidi entro il 2030, che inquieta il settore soprattutto per la mancanza, ad oggi, di indicazioni su metodi alternativi di contrasto ai parassiti. Il dimezzamento del loro uso senza alternative comporterebbe, secondo uno studio di Coldiretti presentato da Martinelli, una riduzione tra il 15 e il 30% della produzione agricola italiana.
«L’Ue si muove a rilento sulle nuove tecniche, come quelle genomiche (Ngt) - ha ammonito Zanni -, che permettono di sviluppare sementi, non Ogm, più resistenti agli infestanti. Senza alternative dovremmo importare certi prodotti da paesi che hanno norme meno stringenti, e sarebbe un autogol».
Questione che ne chiama in causa una più ampia, legata in generale all’uso delle tecnologie nel Green Deal: «La critica maggiore che faccio al piano - ha detto Zanni -, è di aver accantonato la neutralità tecnologica: bisogna invece lasciare che l’agricoltura trovi da sé le tecniche migliori per raggiungere gli obbiettivi, senza imposizioni calate dall’alto».
Tecnologia
L’altra proposta del Green Deal che allarma il settore è il cosiddetto «greening», o inverdimento, che prevederebbe la conversione a incolto del 10% delle superfici agricole, da destinare a rimboschimento o a colture meno impattanti di quelle intensive.
«Secondo delle stime, l’Italia perderebbe più di 1 milione di ettari di terreni coltivabili - ha spiegato il presidente del gruppo europeo Identità e democrazia -. Sarebbe un grave danno per tutti, agricoltori e consumatori: meno terra implica meno produzione, dunque prezzi più alti dei prodotti». «Il Green Deal non è un’idea sbagliata - ha concluso il vicepresidente di Confagricoltura Brescia Oscar Scalmana-, ma occorre che accanto alle misure di salvaguardia dell’ambiente ci sia anche unorizzonte di sostenibilità economica. Vanno aiutate le aziende ad essere più sostenibili, con tecnologie e sostegni economici».
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