Economia

Indeterminato più lontano, per i giovani il futuro è stagionale

Nei primi mesi del 2021 crollo delle stabilizzazioni, ma nelle aziende è allarme per competenze obsolete
La pandemia ha peggiorato anche il mondo del lavoro -Foto © www.giornaledibrescia.it
La pandemia ha peggiorato anche il mondo del lavoro -Foto © www.giornaledibrescia.it
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Non se ne parla mai abbastanza. Perché il rapporto dei giovani col mondo del lavoro è la vera emergenza sociale di questo Paese. E i dati parziali diffusi dall’Inps cristallizzano un contesto che solo all’apparenza assume tratti positivi, ma che anzi testimonia quanto le nuove generazioni restino a galla soltanto con lavori a tempo determinato o impieghi stagionali.

Nei primi cinque mesi dell’anno, infatti, le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati sono state 2 milioni e 412mila, in netto aumento rispetto allo stesso periodo del 2020 (+17%). Il saldo è stato positivo per 616.509 unità, grazie soprattutto alla corsa delle assunzioni a maggio e al saldo positivo nel mese pari a 256.767 unità. Il risultato è dovuto alla combinazione tra la flessione registrata per i mesi di gennaio e febbraio 2021 e l’aumento a partire da marzo delle assunzioni stagionali e in somministrazione. Ed eccolo, il passaggio cruciale. Le trasformazioni da tempo determinato nei primi cinque mesi del 2021 sono state solo 176mila, in flessione rispetto allo stesso periodo del 2020 (con un profondo -25%). E per i contratti a tempo indeterminato nei mesi di gennaio e febbraio si registra una riduzione del 32%. E appena negativo risulta ancora il saldo dell’apprendistato.

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La verità è che negli ultimi 20 anni le vittime più frequenti sono state sempre più giovani. E nell’ultimo decennio sono stati persino tacciati di essere «choosy», «pigri», «fannulloni», «mammoni». In una parola: «inadeguati» – in un verso o nell’altro – rispetto al mondo del lavoro. La verità è che i ragazzi (che nel frattempo diventano sempre meno giovani) sono stanchi di essere sfruttati. Secondo un certo tipo di narrazione in Italia i giovani sono talmente viziati da snobbare qualsiasi opportunità lavorativa che non rispecchi l’occupazione dei loro sogni o obblighi a orari troppo faticosi. Eppure raramente emerge che il vero problema nel rapporto giovani-lavoro sta nel trattamento a loro riservato. Così la retorica dei «giovani che non hanno voglia di lavorare» risulta spesso fuorviante e impedisce di riconoscere le vere radici della disoccupazione. Perché ovunque, non solo nelle aziende, prevale la retorica della «gavetta», che spesso invece di consentire al neo assunto di approcciare la professione, valorizzare le proprie competenze e acquisirne di nuove, diventa un pretesto per scaricare le mansioni meno stimolanti per stipendi minimi.

Oltre al disallineamento tra domanda e offerta e una concezione distorta dell’apprendistato, si aggiunge spesso l’incapacità delle aziende di riconoscere il valore delle competenze non puramente tecniche. In una società sempre più globalizzata è essenziale che flessibilità, conoscenza delle lingue, abilità di problem solving e capacità di collaborare con persone provenienti da contesti diversi vengano valorizzate almeno quanto la capacità nell’utilizzo del computer.  Non è un Paese per giovani. Ed è un mondo troppo veloce per i vecchi. Potrebbe essere riassunto con questo postulato lo scenario tutto italiano.

Da una parte quasi 14 milioni di anziani (la popolazione più vecchia d’Europa), di cui la metà over 75. Dall’altra quasi 13 milioni di adulti con un livello di istruzione basso (equivalente alla terza media). Sono le due facce di una stessa medaglia che pone in una posizione drastica il mondo del lavoro italiano sul piano internazionale. Basti pensare che i numeri vanno parametrati ad un totale di 60 milioni di persone: vuol dire che circa la metà della popolazione non è competitiva sul mercato. Il vero allarme sono le competenze, oggi obsolete. Più di un adulto su due (tra il 53-59% dei 25-64enni) è infatti potenzialmente bisognoso di riqualificazione per via di competenze obsolete, o che a breve lo diventeranno a causa dell’innovazione e del cambiamento tecnologico, oppure perché, nonostante la laurea, possiedono scarse capacità digitali, di alfabetizzazione e di calcolo.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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