«Il Bigio va collocato dov'era stato eretto»
Esempio di architettura d'avanguardia nell'Italia degli anni Trenta, o ambizioso simbolo di un regime che fece della retorica della «romanità» il piedistallo su cui innalzare un potere violento? Manufatto storico-artistico da ripristinare e valorizzare come portatore di memoria, sia pure nella sua connotazione negativa, o parte di città da lasciare nell'abbandono in cui è stata relegata? Attorno a questi interrogativi ruota il recente dibattito sul recupero di piazza Vittoria a Brescia, e soprattutto sulla ricollocazione della statua di Arturo Dazzi «Era Fascista» (popolarmente conosciuta come «Bigio») nel luogo in cui venne eretta nel 1932 nella piazza disegnata da Marcello Piacentini, e da cui venne rimossa dopo il 25 aprile 1945. Una prima ipotesi di ripristino venne avanzata nel 1988 dall'architetto Giorgio Lombardi, nell'ambito del restauro complessivo della piazza sostenuto dal Comune, all'epoca guidato dalla Giunta Padula. Il progetto, confermato dalla Giunta Paroli che ha avviato il restauro e che prevede a breve il ritorno della statua in piazza, è osteggiato apertamente dalle associazioni partigiane, in particolare dall'Anpi, e sta suscitando un dibattito tra le forze politiche.
Sul tema abbiamo interpellato l'architetto Luca Rinaldi, soprintendente ai Beni Architettonici e Paesaggistici di Torino, che da soprintendente a Brescia si occupò del recupero di piazza Vittoria in occasione dei lavori del metrò.
Architetto Rinaldi, nel contesto urbanistico di Brescia, qual è stato il significato architettonico di piazza Vittoria? È tuttora valido?
Piazza Vittoria è una delle realizzazioni più coerenti del Ventennio, e bene rappresenta per l'architettura quel razionalismo classicista allora vincente, diffuso, non solo da Piacentini, come stile del Regime. È nata sacrificando parte del cuore storico della città, con intenti speculativi mascherati da motivazioni igieniche (cancellare il «pittoresco sudicio» come lo definiva Mussolini), indifferente alle resistenze di una (allora) debolissima Soprintendenza, ma con attenzione ai risultati formali dell'operazione, e con il coinvolgimento di artisti all'epoca affermati. Un livello ben più basso verrà raggiunto nell'immediato Dopoguerra, quando, in un decennio di pura follia urbanistica (che oggi qualcuno vorrebbe rivalutare) gli sventramenti del centro storico bresciano proseguiranno, si pensi all'area dell'ex Ospedale, senza qualità e limiti di volumetrie.
La piazza, nata da uno sventramento, ha subito negli anni importanti alterazioni, dai danni delle bombe durante la guerra a successive parziali demolizioni, dalla costruzione del parcheggio sotterraneo ai recenti lavori per la stazione del metrò. Con queste compromissioni, come può essere recuperata nella sua complessità storica?
Piazza Vittoria è da tutelare, come in tutta Italia si sta facendo per le testimonianze di quel periodo, anche quelle più ideologicamente connotate. Il suo restauro deve comportare innanzitutto il ripristino della pavimentazione della parte centrale, sacrificata per il parcheggio sotterraneo, e in subordine la reintegrazione delle decorazioni rimosse o scomparse. Certo tutti avremmo di gran lunga preferito che fosse sopravvissuta la delicata Annunciazione di Arturo Martini, piuttosto che quel goffo pupazzo del Bigio. Ma la statua di Dazzi, uno scultore altrove non disprezzabile, ha per la piazza un preciso significato architettonico, e non solo decorativo, come il rilievo di Martini o quello, ugualmente scomparso, del Duce a cavallo. È per intenderci Piazza della Signoria, mi si perdoni il paragone, che il toscano Dazzi aveva in mente con la statua e la fontana monumentale. Nei colloqui del 2009 con il Comune avevo dunque condiviso in linea di principio il proposito di ricollocarla dove era stata eretta. Attenzione però, nel luogo esatto e all'esatta altezza, perché allora si era calcolato che il sito esatto era in corrispondenza di una delle scale di uscita di sicurezza del parcheggio. In un altro punto non avrebbe senso. A quanto ne so questa indicazione è stata seguita.
La teoria del restauro, così come impostata da Cesare Brandi, suggerisce di non cancellare i segni imposti dal tempo su opere ed edifici. Come conciliare questa esigenza di «memoria» con il ripristino di forma e funzione della piazza? Il ritorno del «Bigio» non rischia di riempire un «vuoto» che ha una sua eloquenza, dal momento che la statua fu deliberatamente rimossa?
Naturalmente non era obbligatorio rimettere al suo posto l'«Era Fascista». Anche il vuoto ha un suo significato. Qui però è molto meno comprensibile, per fare un confronto, del pilastro scheggiato in Piazza Loggia, memoria della bomba e della strage del 1974.
Fin dal nome («Era Fascista») il «Bigio» fu connotato ideologicamente. Come superare questa identificazione, anche nel rispetto dovuto alle vittime del regime fascista?
Per quanto riguarda il significato simbolico - invero esplicito - della statua non stava alla Soprintendenza giudicare, ma alla rappresentanza dei cittadini democraticamente eletta, l'opportunità di riproporlo. D'altronde oggi, a distanza di ottant'anni dalla sua realizzazione, nel Bigio ognuno leggerà quello che la sua sensibilità e cultura potrà consentirgli: la testimonianza di una caratteristica forma d'arte del passato, un fulgido ricordo del glorioso Ventennio, la prova della tronfia retorica del Regime, o forse lo stereotipo, se non l'allegoria, dell'«homo faber brixianus»... Chissà. Di certo sarà un'attrazione turistica.
Giovanna Capretti
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