Economia

«I dazi graveranno sugli Usa, ma mettono a nudo il nostro nanismo industriale»

Marco Mutinelli (UniBs): «Anche Brescia conta solo una quindicina di imprese produttive negli States»
Donald Trump - Ansa © www.giornaledibrescia.it
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«Questa settimana si è aperta con le agenzie di stampa che battevano la notizia del ripensamento di Trump sui dazi reciproci, che sarebbero stati sospesi per 90 giorni per tutti i paesi, esclusa la Cina. Poche ore dopo, la notizia è stata smentita dalla Casa Bianca. Ieri mattina, però, dopo nuovi ripetuti crolli delle borse di tutto il mondo (e un vistoso sbandamento del dollaro), di nuovo Trump ha annunciato la sospensione dei dazi sempre con l’eccezione della Cina.

Mi astengo da ogni commento circa il comportamento del presidente della maggiore economia mondiale e del suo entourage ...». Il prof. Marco Mutinelli insegna Economia e organizzazione aziendale per il corso di laurea in Ingegneria gestionale all’Università degli studi di Brescia. Anche lui fatica a nascondere il suo disappunto per le ultime mosse di politica economica attuate da Donald Trump.

«... il comportamento del presidente americano, le dicevo, sta gettato nel panico le borse mondiali, determinando perdite di valore dei titoli borsistici per decine di migliaia di miliardi di dollari – continua Mutinelli –. Se la materia prima fondamentale – delle borse è la fiducia, è evidente che in giro ve ne sia ben poca riguardo alle politiche economiche annunciate dall’amministrazione Usa. Mi limito ad osservare che a mio giudizio il Paese che più avrebbe da perdere se quanto annunciato nel “Liberation Day” fosse effettivamente implementato sarebbero proprio gli Stati Uniti, che oggi importano beni da tutto il mondo per un valore pari ad oltre il 40% della propria produzione manifatturiera».

In effetti, come hanno già dimostrato molti suoi colleghi, ma nono solo, la bilancia commerciale degli Stati Uniti è molto sbilanciata a favore delle importazioni.

«Molti prodotti iconici “a stelle e strisce” sono oggi prodotti interamente al di fuori del continente americano: si pensi agli iPhone, ai computer, alle scarpe Nike o agli occhiali da sole Aviator di Ray-Ban (questi ultimi prodotti nello stabilimento Luxottica di Rovereto). È ragionevole pensare che queste produzioni possano tornare facilmente negli Usa? Di certo non in tempi brevi, perché gli investimenti industriali hanno cicli lunghi in media qualche anno. Ma costruire nuovi stabilimenti significa acquistare beni capitali e forniture industriali, il cui prezzo aumenterebbe a causa dei dazi; trovare nuovo personale disponibile e dotato delle competenze necessarie per lavorare in fabbrica; ricreare un ecosistema industriale di filiera (produttori di componenti, fornitori di servizi specializzati, …) per produzioni talvolta abbandonate da anni dall’industria Usa».

Di conseguenza, se Trump (re)introducesse i dazi anche per altri Paesi, oltre che per la Cina, quali sarebbero gli effetti immediati?

«L’effetto immediato dei dazi sarebbe sicuramente nel breve termine una forte inflazione, che ben difficilmente potrebbe essere recuperata nel breve-medio e molto probabilmente nemmeno nel lungo periodo, visti i prevedibili alti costi (sia per la manodopera, il cui mercato si surriscalderebbe; sia per materie prime, componenti e beni strumentali necessari per la produzione, a loro volta gravati dai dazi)».

E nel lungo periodo?

«Nel frattempo vi sarebbero anche inevitabili scosse di aggiustamento con effetti recessivi. Si pensi ad esempio alla decisione di Stellantis di chiudere a causa dei dazi due stabilimenti di assemblaggio di auto destinate agli Usa in Canada e in Messico, con inevitabili contraccolpi su un centinaio di fornitori e subfornitori statunitensi di questi stessi stabilimenti, i quali nel breve periodo non possono certamente destinare ad altri mercati i loro prodotti, realizzati ad hoc per uno specifico modello. Nemmeno le imprese tecnologiche della Silicon Valley sarebbero al riparo, a fronte di un repentino aumento dei prezzi dei componenti elettronici ed informatici».

Uno studio presentato da Confindustria Brescia a fine 2023 evidenziava che gli Stati Uniti sono il quarto mercato di sbocco per il Made in Brescia, ma anche il primo mercato in termini di investimenti societari da parte delle nostre aziende. In altre parole, la presenza di società e capitali bresciani negli States è già importante e per certi versi anticipa il progetto di Trump. Concorda?

«Va sottolineato come gli eventi di questi giorni abbiano messo a nudo una fondamentale debolezza dell’industria italiana, che a mio giudizio risiede nel nanismo industriale: una struttura basata su piccole e medie imprese, per carità capaci di sfornare spesso prodotti eccellenti, ma raramente in grado di presidiare adeguatamente i principali mercati di sbocco e di reagire alle crescenti turbolenze dell’economia mondiale. Basti pensare che le imprese italiane presenti con una propria filiale negli Usa sono poco più di un migliaio e quelle presenti con stabilimenti di produzione non raggiungono le 200 unità, numeri piccolissimi se confrontati con quelli degli altri paesi industrializzati e financo di molti paesi europei le cui dimensioni economiche sono di gran lunga inferiori a quelle dell’Italia (Paesi Bassi, Svizzera, Belgio, Svezia, Norvegia, …). Anche una provincia di solide tradizioni industriali come quella di Brescia conta solo una quindicina di imprese con attività produttive nella più grande economia mondiale. Il tema della crescita dimensionale e multinazionale delle nostre imprese rappresenta a mio giudizio un tema che deve essere posto al centro di qualsivoglia politica industriale, ammesso che questo tema trovi posto nell’agenda del governo del Paese». 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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