Dal rabdomante all’industria 4.0: i 49 anni della Tavina
Tutto è iniziato con un rabdomante che aveva individuato le fonti e tutto continua con l’industria 4.0 dove una telecamera controlla che ogni bottiglia sia senza difetti e lo fa per trentunomila volte l’ora scartando ciò che non è perfetto.
Sta anche qui - in estrema sintesi - la storia della Tavina, oggi 2.0, intesa non come seconda rivoluzione industriale, ma come secondo stabilimento, dopo il primo alla porte di Salò dove l’azienda è nata e poi è cresciuta, prima del gran salto a Cunettone. Salto durato dieci anni, ed ora finalmente terminato, anche se per il log off della sede, operativa dal 1968, occorrerà ancora qualche mese: poi la parola toccherà a Prelios - (società quotata e tra i principali gruppi europei nell’asset management e nei servizi immobiliari specialistici) - advisor che ha ricevuto un mandato per trovare l’investitore che realizzi albergo, casa per anziani e residenziale.
Ma questo è il futuro: il presente è un nuovo tubo di quasi due chilometri che dalla fonte, con una portata di 30mila litri ora, superando un dislivello di un centinaio di metri, porta l’acqua al nuovo stabilimento di Cunettone che la famiglia Fontana ha presentato ieri dopo un iter dai tempi biblici (10 anni!), giunto ora a conclusione. Tavina dà così nuove certezze a sessanta dipendenti, generando 28 milioni di investimenti (4,7 per i terreni, 7,8 per l’immobile, 2,6 per l’impianto di imbottigliamento del vetro, 8 per quelli della plastica, 2,5 per il magazzino automatico, 1,2 per l’acquedotto e 1,2 per gli impianti idraulici).
Dieci anni (tanti quanti ne sono serviti per la metropolitana di Brescia) per completare questo progetto non sono pochi «e per questa tenacia dobbiamo ringraziare - ha detto il presidente di Aib Giuseppe Pasini - Armando Fontana che ci ha creduto», opponendosi agli effetti metastatizzanti della burocrazia e sottolineando come «la cultura d’impresa non sia quella dell’aiuto, ma quella del non creare ostacoli». Allora su la saracinesca in un’area di 28mila metri quadrati su cui sorge un capannone di 18mila mq di cui 2.100 occupati dal magazzino dove acque gasate e no gas, in bottiglie di plastica o di vetro grandi e piccole, vengono catturati (tra 11mila pallets) da un sistema automatizzato, dopo che nel 1970, tra i primi in Italia, Tavina aveva dato avvio alle casse in legno, iniziando nel 1985 ad imbottigliare in pvc, sostituito poi dal pet, più idoneo all’acqua. Gli adempimenti. «Nove anni per autorizzarlo ed un anno per costruirlo» ha chiosato argutamente un collega, ma questi sono stati i tempi «cui - ha spiegato Armando Fontana - ha dato un’accelerazione la giunta di Giampiero Cipani che ringraziamo» nel 2014 dopo che si era iniziato a parlarne nel 2006, sottolineando di «aver trovato l’energia per continuare a credere nel progetto grazie alla Fede, alla famiglia ed ai suoi collaboratori».
Circa 56mila le ore di lavoro necessarie, 9.700 metri cubi di calcestruzzo, 430mila kg di ferro per completare l’impianto oltre ad altri 3.800 metri cubi di calcestruzzo per le opere prefabbricate e altri 575mila kg di ferro. Numeri che aiutano a capire cosa un investimento muove, quanti posti di lavoro genera e conseguentemente quanto benessere. Il progetto è dello studio Archibems degli architetti Barba e Salvadori. Si fa presto a dire acqua, ma dietro c’è un sistema complesso che muove (con una capacità di 400 milioni) ogni anno 200 milioni di bottiglie (il 50% va all’estero) con due linee di imbottigliamento, il 30% con gas e il resto naturale; di queste bottiglie 35 milioni sono di vetro.
Dentro, oltre ai marchi Tavina, Linda e Allegra, le produzioni private labels per clienti particolari. Cinquant’anni fa era stata rilasciata l’autorizzazione ministeriale, con il debutto sul mercato nel 1968; 49 anni dopo la prima consegna, fatta dal fondatore Amos Tonoli al piccolo Cottolengo di don Orione (di cui l’imprenditore era amico fin da quando i fratelli partirono in missione per l'Argentina), il nuovo stabilimento. Buon viaggio.
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