Economia

Caro energia, le aziende: «Costi folli, così dovremo chiudere»

La crociata delle imprese parte da Brescia con un appello a Palazzo Chigi: «Stiamo producendo in perdita, il Governo agisca subito»
Alle stelle. Per energia e gas costi fuori controllo
Alle stelle. Per energia e gas costi fuori controllo
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L’esempio direttamente dal campo di battaglia lo fa il presidente di Assofond, Fabio Zanardi: «A settembre abbiamo visto il margine di guadagno diminuire, a ottobre lo abbiamo visto azzerarsi, a dicembre siamo andati in negativo. Ora più produciamo, più soldi perdiamo». A tradurre il contesto in cifre nude e crude, così da avere ben chiaro il colpo di grazia, ci pensa Roberto Pierucci (Assovetro): «Se prima la bolletta era di 400mila euro, a gennaio sarà di 1.600.000 euro».

Eccoli, conti alla mano e un grattacapo consegnato nelle mani del governo, i nervi a fior di pelle delle aziende manifatturiere, che - dalla Fonderia di Torbole - lanciano il loro ultimo appello istituzionale, a testa alta e schierando tutte le carte sul tavolo: «Fate qualcosa, altrimenti senza aiuti si chiude». Altrimenti, una dopo l’altra, con un effetto domino incalcolabile, saranno costrette ad alzare bandiera bianca e a dichiarare il «default produttivo», sacrificando sull’altare del caro energia lavoro e investimenti di una vita. E facendo così inevitabilmente franare, in un batter d’occhio, competitività, Pil e tenuta sociale del sistema Paese. Perché il costo dell’energia è aumentato del 650% rispetto al gennaio 2020.

Le ricadute secondarie

È una tempesta perfetta quella che il governo si trova ora a dover affrontare. Perché se le aziende tengono i cancelli chiusi, non solo si va incontro a un calo drastico di beni e servizi (per dirne uno: gli imballaggi che servono a fare arrivare i prodotti sugli scaffali dei supermercati), ma esaurite le ferie forzate l’effetto boomerang arriva dritto come uno schiaffo anche sulle famiglie e sui conti pubblici. E si chiama cassa integrazione di massa.

Le voci degli imprenditori

Il fronte imprenditoriale parla con compostezza, ma non usa mezzi termini: la situazione non ha precedenti e - senza un intervento statale deciso - non ci sono più assi nella manica da sfoderare. «Mai avrei pensato di riuscire a tenere in ordine i conti della mia azienda solo mantenendola ferma per quaranta giorni - ammette amareggiato Enrico Frigerio -. Migliorerà il bilancio dell’azienda, ma non certo quello dei dipendenti e dello Stato che dovrà pagare la cassa integrazione: per questo servono proposte».

Zanardi è ancora più crudo e spiega che ora gli imprenditori hanno di fronte a sé due strade. La prima la chiama «la morte istantanea», perché «onorando contratti e prezzi di vendita, nel giro di due mesi il comparto rischia di sparire». La seconda la battezza «morte differita» e funziona così: «Ci costringiamo a modificare i prezzi di vendita, garantendoci una sopravvivenza nel breve termine». L’epilogo però è lo stesso: «Nel giro di massimo sei mesi si arriva alla sparizione delle nostre competenze». Di qui la mano alzata e la richiesta di aiuto: «Chiediamo una terza via, ovvero la possibilità di poter programmare e operare, mantenendo il business in modo sostenibile. Altrimenti a gennaio si chiude: accendere i forni non solo non conviene, ma ci danneggia».

Il paradosso

Tutto questo nasconde un amaro paradosso: scavalcata la prima emergenza Covid che aveva imposto lo stop anche alle attività produttive, ora si sta assistendo ad un boom di ordini come non avveniva da anni. Le imprese dei settori cosiddetti energivori hanno un ruolo chiave nel tessuto industriale. In cifre: generano 88 miliardi l’anno di valore aggiunto, con una forte vocazione all’export che vale circa il 55% del loro fatturato, sostengono 350mila posti di lavoro diretti, numero che raddoppia a 700mila persone se si allarga il campo visivo all’indotto.

«Oggi quando si produce si perdono soldi. Se il governo non agisce veniamo stritolati in questa situazione» è il laconico commento di Giovanni Savorani (Confindustria Ceramica). A fargli eco è Michele Bianchi (Assocarta): «Se noi non produciamo, mancano i materiali nei supermercati. Ma oggi i costi dell’energia incidono per oltre il 40%, ben più della materia prima». Dice poi Davide Garofalo (Assomet): «La nostra azienda non sta più comprando materia prima ma energia. Abbiamo bisogno di aiuto adesso, non tra mesi, altrimenti l’unica strada è la chiusura».

L'emergenza di tutti i settori

A descrivere bene il terremoto, mettendo sul tavolo un carnet di proposte da consegnare a Roma, è infine Roberto Vavassori (Anfia), che inizia con un’incitazione: «Fate presto!». La ragione la illustra subito dopo: «Intere filiere rischiano di scomparire e di farne a loro volta svanire altre». Sì, perché quella del caro energia è diventata l’emergenza numero uno di tutti i comparti. «Questa - ribadisce Vavassori - non è una crisi che conosce soluzioni a breve, ma si può sterilizzare una parte del costo, come in Francia, agendo sul prezzo unico nazionale. Dobbiamo tornare a negoziare contratti di lungo periodo con chi possiede il gas, perché abbiamo concorrenti agguerriti come Cina, Corea del Sud e Giappone. L’Europa in questa partita non può continuare ad essere debole. La situazione va corretta in tempi rapidissimi». Sì, ma come si può fermare la prima ondata di chiusure? Schierando subito sul tavolo «almeno 13 milioni di euro» e rispondendo a una domanda: meglio salvare le attività produttive o sobbarcarsi migliaia di procedimenti di cassa integrazione? Parola al governo.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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