Zerocalcare: «Mostro storie che altrimenti non verrebbero guardate»

Il fumetto scala i piani alti, abbatte muri di pregiudizi, scardina la porta dell’Olimpo letterario, siede tra i grandi e diventa letteratura. Il prodigio l’ha compiuto Zerocalcare (pseudonimo di Michele Rech, disegnatore quarantenne di Arezzo) con il suo graphic novel «No Sleep Till Shengal» (Bao Publishing, 208 pagine, 23 euro), che ha vinto la XIX edizione del «Premio Terzani», assegnato a Udine nell’ambito dell’annuale festival «Vicino/Lontano». L’opera è un vero e proprio reportage del coraggioso viaggio compiuto dall’autore in Iraq all’interno della comunità ezida di Shengal, minacciata dalle tensioni internazionali e protetta dalle milizie curde; una situazione è volutamente dimenticata dalla geopolitica.
Abbiamo intervistato Zerocalcare, che ha da poco pubblicato anche «Dopo il botto» (Bao Publishing, 192 pagine, 23 euro), catalogo della grande mostra di Milano alla Fabbrica del Vapore. A giugno, poi, una sua nuova serie animata andrà in onda su Netflix.
Quale pensa sia la ragione dell’affermazione dei suoi lavori che una certa ipocrisia aveva relegato in una sorta di limbo culturale?
Ormai sta diventando sempre più pressante nel senso comune il fatto che il fumetto sia un linguaggio, e non un genere. Come tale, può affrontare qualsiasi tematica e qualsiasi format: ci si possono fare le ricette di cucina, i saggi di politica, le storie d’amore e di fantascienza. L’unico criterio che uno dovrebbe porsi è quello di sfruttare appieno il mezzo, di fare coi fumetti quello che non riuscirebbe a fare con un medium diverso.
Questo reportage è soprattutto una testimonianza del dramma di popoli in guerra?
Effettivamente è la loro storia: io sono letteralmente andato a raccogliere la loro voce, non era il libro su una mia avventura. Il mio personaggio, in questo caso, lo uso più che altro per creare una sorta di continuità con gli altri libri, per portare quei lettori a conoscere queste storie che altrimenti magari non guarderebbero.
Di questo mondo a nord dell’Iran che lei racconta che cosa l’ha sorpresa o intristita di più?
Mi ha sorpreso quanto una popolazione oggettivamente chiusa, quasi nascosta in un angolo della Mesopotamia, legata a tradizioni antichissime e rimasta sostanzialmente estranea a tutti i tentativi di assimilazione da parte dei popoli e dei regimi che hanno dominato quelle aree, in pochissimi anni abbia compiuto un balzo gigantesco in termini di progresso sociale, senza tradire la propria identità. È qualcosa che dovrebbe essere raccontato e studiato-sostenuto, anche da chi si interroga sulle ingiustizie e sulle ineguaglianze, da chi prova a immaginare una società diversa. Mi intristisce vedere che invece preferiamo lasciarli alla loro sorte.
Si potrebbe parlare anche per gli Ezidi di genocidio che avviene sotto gli occhi indifferenti del mondo?
Il genocidio avvenuto nel 2014 da parte di Isis è stato riconosciuto come tale anche dall’Onu, ed è stato un evento drammatico che ha segnato quella popolazione in modo indelebile. Quello che accade adesso è più sottile. Di fatto l’Iraq e la Turchia cercano di rendere quel territorio invivibile, di fare in modo che la diaspora ezida non torni ad abitare quelle zone. La totale mancanza di servizi, lo stillicidio di bombardamenti turchi che colpiscono non solo obbiettivi militari ma anche civili e politici, servono a decimare l’amministrazione autonoma ezida e a scoraggiare chiunque dal rimanere a vivere lì.
Militarmente non ci troviamo - ancora, perlomeno - di fronte ad un attacco su larga scala o ad una invasione, ma ad una minaccia che è molto difficile da contrastare: gli ezidi si difendono con una milizia popolare che non ha i mezzi per rispondere ai droni o all’aviazione turca. La loro determinazione però rende difficile un’invasione, che troverebbe una resistenza irriducibile e che sarebbe difficile da raccontare al mondo, dopo i massacri del 2014.
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