«Videocamere puntate contro l’assedio delle armi»
Videocamere puntate, per fronteggiare l’assedio delle armi. È questa una delle differenze riscontrate dal regista bresciano Nicola Zambelli tornando in Palestina, proprio dove, tredici anni fa, girò con il concittadino Andrea Paco Mariani il lungometraggio d’esordio «Tomorrow’s Land». I bambini conosciuti ai tempi del primo viaggio oggi sono diventati una gioventù pronta a filmare la dura realtà quotidiana, per denunciare l’oppressione dell’occupazione. Una forma di mediattivismo resa possibile dalle nuove tecnologie, ma certamente favorita anche da quel primo incontro con la troupe bresciana e che ora si affianca ad altre pratiche di resistenza non violenta: dal piantare olivi come simbolo di presenza pacifica, al ristrutturare le grotte abitabili dell’antico villaggio, sottratto alle generazioni precedenti.
Proprio questa località contesa, in Cisgiordania alle porte del deserto del Negev, dà il nome al nuovo documentario del collettivo SMK Videofactory «Sarura - Il futuro è un luogo sconosciuto», che verrà presentato in anteprima nazionale al Nuovo Eden venerdì 18 marzo alla presenza del regista (ore 21.15, via Nino Bixio 9, in città - replica sabato 19 alle 18.30). Il film ha ricevuto il patrocinio di Amnesty International ed è stato selezionato agli Impact Days del Festival Internazionale del Cinema e Forum sui Diritti Umani di Ginevra.
Zambelli, come ci si sente, da documentarista, nel tornare in un luogo di resistenza e vederlo sì vivace, ma ancora sotto scacco?
È frustrante. Avvilisce anche notare che l’interesse su questo conflitto è diminuito a causa dei tanti altri, scoppiati in seguito nell’area. Tuttavia, osservando quanto accade nello specifico villaggio, qualcosa è migliorato grazie alle proteste pacifiche, ad esempio gli attivisti sono riusciti ad avere l’elettricità. C’è tuttavia un rischio nel gioire di queste piccole conquiste: la normalizzazione dell’occupazione.
Come si percepisce questo slittamento?
Ad esempio una volta c’era una jeep militare che scortava i bambini alla scuola di At-Tuwani, adesso è stata sostituita da un veicolo con la bandiera degli attivisti del collettivo "Youth of Sumud", ovvero "La gioventù della perseveranza", che di fatto non sono altro che i bambini che abbiamo filmato nel nostro primo viaggio, oggi cresciuti. È stato emozionante ritrovarli.
Come sono cambiate le cose dopo la diffusione di Internet e delle videocamere negli smartphone?
Eravamo abituati all’idea che fosse il documentarista a scegliere il punto di vista e a far parlare i soggetti di una storia, mentre ora si possono ricostruire i fatti da diverse angolazioni, grazie ai filmati raccolti.
È una nuova possibilità di "prendere parola", che valore può avere per il futuro?
Può rivelarsi utile alla convivenza pacifica. Se due popoli si parlano, c’è ancora speranza.
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