«Usiamo i musei per una visione nuova sul futuro»
I musei vanno "rimpiazzati". Non brutalmente: possono diventare nuovi luoghi di cultura, ma solo guardando alla contemporaneità e solo intendendo la virtualità come parte della realtà. Ne è convinto Emmanuele Curti, ex accademico ed ex archeologo, che ama molto la parola "ex", ma solo per proiettarsi nel futuro.
Oggi alle 16.30 sarà a Brescia, tra i relatori di «La partecipazione che unisce», il primo dei talk del ciclo «Open Doors. Il museo partecipativo oggi», curato da Pierluigi Sacco e organizzato da Fondazione Brescia Musei in collaborazione con Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali e con The Network of European Museum Organisations: all’Auditorium Santa Giulia in via Piamarta (visibile anche in streaming).
L’evento si rivolge agli operatori culturali (con partecipazione gratuita previa iscrizione a cup@bresciamusei.com) e tratterà il tema dei musei e dei luoghi culturali che vogliono diventare centro di coesione sociale. A parlarcene è lo stesso Curti, che sarà sul palco con Ines Camara (direttrice di Maia dai ideias di Lisbona), Pascal Keiser (direttore de La Manufacture di Avignon) e Antonio Lampis (direttore del Dipartimento Cultura Italiana della Provincia di Bolzano).
Il suo, Curti, è un percorso molto interessante: archeologo, docente, ora esperto di cultura come welfare. Cosa l’ha portata qui?
Ho fatto l’accademico per molti anni e ho lavorato nei musei, luoghi che hanno bisogno di una profonda ridefinizione. Li abbiamo reinventati 200 anni fa, ponendo il British Museum al centro delle città, ma oggi dobbiamo rapportarci alla gestione della storia in un mondo che si avvia velocemente verso le digitalizzazioni e la virtualizzazione. Anche l’arte: pensiamo agli NFT e al Metaverso, in cui si vivrà un riflesso digitale delle opere, costruendo vite virtuali che però sono reali. Non dobbiamo spaventarci, ma affrontare il futuro.
Due anni fa ha fondato «Lo Stato dei Luoghi». Di cosa si tratta?
È una rete di centri di rigenerazione a base culturale. In Italia stanno nascendo molti spazi di questo tipo: ex chiese, ex teatri, ex officine del Novecento (l’importante è che siano "ex"), a cui viene dato un significato nuovo e in cui si lavora su educazione, inclusione sociale e welfare culturale. La cultura è strumento di ridefinizione delle comunità. Anche perché questi luoghi stanno spesso in periferie o in spazi feriti. Siamo già a più di 100 in Italia. Di Brescia non c’è ancora nessuno, ma Carme vorrebbe farne parte.
Ci sono figure meno culturali che sarebbe utile coinvolgere per rendere l’inclusione ancora più efficace?
È necessario partire dall’aspetto educativo e quindi dalle scuole. I ragazzini e le ragazzine vanno velocissimi: soppianteranno i musei senza più badare ai nostri linguaggi. E in generale le comunità devono essere coinvolte con sollecitazioni diverse, rispondendo alle reali domande che si pongono. Non dall’alto verso il basso, insegnando arte e archeologia, ma usando le collezioni e il nostro Dna per una visione nuova sul futuro.
Anche i luoghi più istituzionali, come per esempio un museo cittadino, possono diventare accoglienti in questo senso?
Dobbiamo allontanarci dalla cultura della didascalia, questi luoghi vanno ripensati. Da archeologo, so che c’è un profondo significato nel nostro rapporto con la cultura e con le pareti dei musei, ma deve esserci un nuovo vocabolario. Anche i giornali devono accogliere la sfida. Il Giornale di Brescia in particolare: l’anno prossimo vivrà l’avventura di Brescia Capitale della Cultura e avrà un ruolo importante.
Essendo stato consulente di Matera 2019, cosa consiglierebbe a Brescia e Bergamo per il 2023?
Di pensare già al 2024. Il programma non deve fossilizzarsi sul 2023, non deve essere un’autocelebrazione, ma un’occasione di sperimentazione e laboratorio per il futuro, perché tutto si depositi e sedimenti. E le politiche nazionali dovrebbero prendere ispirazione da queste città: il Ministero della Cultura e quello dello Sviluppo Economico possono prendere spunto per le nuove politiche.
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