Cultura

Una vita intensa che diventa romanzo appassionato

Adriano Barone ha pubblicato «Una donna e una città», ricordi raccolti nelle notti insonni
La copertina del libro di Adriano Barone
La copertina del libro di Adriano Barone
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Riuscire a raccontare la propria vita, per quanto lunga e ricca di soddisfazioni (ma anche di inevitabili sconfitte e sofferenze) non è certo impresa semplice, anzi. Anedotti e vicende interessanti per il ristretto nucleo familiare raramente lo sono anche per il resto del mondo. La differenza sta però nel saperli racontare quegli anedotti e quelle vicende. Perché aveva certamente ragione Lev Tolstoj nel dire (nello straordinario incipit di «Anna Karenina») che «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo», ma in fondo tutti siamo felici e infelici, e così, ne è convinto Adriano Barone, ogni uomo ha una storia da raccontare. Lui ha deciso di raccontare la sua, e nelle lunghe notti insonni davanti al computer ha messo in ordine i ricordi, ne è così nato il volume «Una donna e una città», Marco Serra Tarantola Editore (184 pagine, 15 euro).

Il libro di Barone ha un pregio fondamentale, è scritto come un romanzo, con quella passione per il racconto e i dettagli che ti prende per mano e ti accompagna pagina dopo pagina fino alla fine. Una bella soddisfazione, quasi una rivincita, per lui che avrebbe voluto fare il gornalista, «mamma era d’accordo, papà no. Da buon meridionale desiderava un figlio medico e avvocato l’altro. Toti studiava medicina, io dovetti scegliere Giurisprudenza».

L’inizio è a Trieste, «in via Giustinelli mamma aveva una stanza in subaffitto da Mimì Urbani, vedova, che viveva col vecchio padre, il signor Conforti, e i tre figli: Fulvia, Dino e Claudia. Era una bella famiglia, a cui ero assai affezionato. Mi trattavano come un fratello minore, soprattutto Claudia. Avevamo in comune il bagno e la cucina. Non esisteva il frigorifero». La vita di Barone era iniziata «in Africa, in Libia, a Tripoli dov’ero nato il 26 settembre del 1939, qualche settimana dopo l’invasione nazista della Polonia e il conseguente scoppio della Seconda guerra mondiale. Nato col botto, dunque! Nacqui in casa, in Zanghel el Carula alle 17.45. Papà, sottufficiale di carriera del Regio Esercito, vi era stato inviato per ragioni di servizio, poiché la Libia era una colonia italiana».

Quello dei suoi genitori «è stato un matrimonio d’amore che la guerra ha distrutto, disgregando la nostra famiglia, alla quale, subito dopo la mia nascita, si era aggiunta la nonna Giovanna, che si era decisa a lasciare Parigi per venire in soccorso di mia madre a Tripoli». Poi il ritorno in Italia, a Palermo, quindi a a Brescia dove il padre trovò lavoro come impiegato. «Lasciavo mia madre con molta nostalgia e cominciavo a conoscere mio padre che era un uomo buono, dal cuore generoso, con un carattere forte ed era un gentiluomo, galante con le signore ed educato nelle espressioni e nel linguaggio, tenerissimo coi nipotini. Ma il mio impatto con Brescia fu orribile, «persi anche l’anno scolastico pur non meritandolo».

Poi gli anni al Liceo Arnaldo, «la nostra era l’unica sezione esclusiavamente maschile e tale rimase fino alla maturità: cinque anni senza compagne di classe, ma cinque tornei di calcio dominati alla grande!». La laurea, l’insegnamento a Cevo, la professione da avvocato. L’amore per Mariagrazia, «grandi occhi allegri e tristi, così come si alternano i giorni e le notti», «me ne innamorai in una tiepida primavera e capii presto che sarebbe stata la donna della mia vita». I due figli Michele e Matteo, e i «tre splendidi nipotini» Andrea, Enrico e Lorenzo. «Questi cuccioli sono stati un vero dono e mi hanno consentito di inventarmi nonno, un ruolo che mi permette di viziarli quando nessuno mi vede, ma anche di trasmettere loro, assieme a qualche momento di complicità, anche qualche stilla di saggezza». Perché «l’esistenza di un uomo è affare complesso».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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