Treves: «Una voce sopra gli slogan, le parole e i pregiudizi»
Un regista nato a New York nel 1945, collaboratore di mostri sacri come Francesco Rosi, Vittorio De Sica e Luchino Visconti e autore in proprio di affascinanti lungometraggi, perfino candidato all’Oscar 1972 per il miglior documentario, all’esordio con «K-Z». Giorgio Treves ha natali americani perché i genitori, torinesi, erano emigrati, in fuga dalle «leggi razziali fasciste». Non è dunque un caso che egli abbia realizzato, dopo oltre un anno di ricerche, «1938. Diversi», film fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia, che ripercorre la storia misteriosa dell’antisemitismo nazionale del secolo scorso.
Giovedì 6 dicembre, l’autore lo presenterà a Brescia, al Nuovo Eden, invitato dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e dalla Fondazione Calzari Trebeschi, in collaborazione con Fondazione Brescia Musei (alle 21; biglietti a 6 euro, ridotti e per soci Ccdc a 5 ; info su www.nuovoeden.it). Abbiamo parlato con lo stesso Treves.
Le leggi razziali del 1938 sono state spesso considerate come una concessione obbligata del fascismo all’alleato tedesco. Ne è derivata l’idea di un «apartheid» all’acqua di rose. Lei offre invece una lettura ben diversa... Quei provvedimenti amministrativi (di questo si tratta, perlopiù) erano in realtà autonomi, molto duri, ed avevano pure la pretesa di basarsi su teorie pseudo-scientifiche; al punto che Hitler stesso, ammirato, inviò osservatori a studiarli. Furono imprevisti, perché il popolo italiano non era tradizionalmente antisemita: da noi non era diffusa la piaga virulenta come in Francia, in Germania, in Russia e nell’Europa dell’Est.
Le persone di origine ebraica erano ben inserite nella società italiana? Non si distinguevano dagli altri cittadini. Quando cominciarono a diffondersi le prese di posizione antisemite, per decisione dall’alto, molti nemmeno immaginavano che aspetto potesse avere un ebreo. C’è, al riguardo, un episodio illuminante, riportato dal fratello di Vittorio Foa e risalente ai primi anni ’30. Davanti a un interlocutore infervorato nell’insultare gli ebrei, Foa ribatte che egli stesso lo è; e quello gli risponde, stupito: «Impossibile. Gli ebrei sono neri!».
Quali sono le motivazioni dell’anomalia italiana? Sono storiche. Lo Statuto Albertino del 1848, che nasce laico e nel 1861 diventa la carta fondamentale del neonato Regno d’Italia, abolisce i ghetti e sdogana gli ebrei, che si mescolano alla società dell’epoca. Ciò spiega la riconoscenza verso i Savoia che portò, tra le altre conseguenze, alla poco nota eppure massiccia mobilitazione degli ebrei in occasione della Prima Guerra mondiale.
Le leggi del ’38 resero «diverso» chi non lo era... Avvenne lo smantellamento dello Stato di diritto e di regole di convivenza civile consolidate. Prima furono colpiti i bambini, banditi dalle scuole; poi tutti gli altri, tra l’indifferenza di chi aveva vissuto loro accanto. Solo nel 1943, dopo l’armistizio, ci fu una reazione della società.
Perché ritiene che questa memoria sia smarrita più di altre? Credo che sia effetto indiretto dell’amnistia sollecitata da Togliatti nel dopoguerra. Pur con chiari e apprezzabili intenti pacificatori, essa azzerò le responsabilità. Fu facile far passare certe scelte come imposte dai nazisti, e così si è perpetuato il mito degli «italiani brava gente»...
Nel film campeggia una frase di Umberto Eco «sull’eterno ritorno del fascismo», concetto recentemente ripreso dal costituzionalista Gustavo Zagrebelski. Ripensando a quell’evento epocale, vede segnali odierni di emergenza democratica? Il maggiore egoismo della gente, la sospensione di un processo culturale ed educativo ch’è la base della convivenza non sono buoni segnali. Ma siamo in democrazia e non in uno Stato militarizzato: occorre essere vigili, ma ci sono gli strumenti per reagire.
Nel film, lei assume una posizione non ideologica, scegliendo il rigore storico e lasciando che lo spettatore si faccia una propria idea, senza forzature. Che accoglienza ha incontrato? Buona dal pubblico adulto. Circa i ragazzi, invece, ho la sensazione che guardino a quegli accadimenti come a qualcosa di lontano, di astratto. Mi ha intristito e inquietato la spiegazione di un insegnante circa il rifiuto di parte dei suoi studenti di assistere alla proiezione, avendo essi bollato il film, senza averlo visto, come «settario e propagandistico». Non lo è; dunque mi sento ancora più responsabilizzato a farlo girare e ad offrire uno spunto di riflessione, senza rinunciare a far sentire la mia voce, sopra gli slogan, le parole d’ordine, i pregiudizi.
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