«The milky way», viaggio necessario tra i sentieri dei migranti
Si può «Sciare senza confini», tuttavia non è consentito attraversare le montagne a piedi alla ricerca di una vita migliore. La promessa fatta dallo slogan del comprensorio alpino «Vialattea», tra Italia e Francia, stride con i sogni dei migranti, che tentano così di superare i valichi di nascosto di notte: circa nove ore di cammino nella neve, senza calzature né abiti adeguati.
Il documentario «The milky way» testimonia questo esodo del giorno d’oggi, lungo una via montana percorsa in passato anche dagli emigranti italiani. Il film, co-prodotto Smk Videofactory con 450 donatori tramite crowdfunding, è stato presentato venerdì al cinema Nuovo Eden in due proiezioni gremite.
In sala sono arrivati il regista Luigi D’Alife e il direttore della fotografia bresciano e produttore Nicola Zambelli, assieme agli altri membri della produzione, per ripercorrere le tappe di un viaggio senza tempo: «Dall’inizio dell’Ottocento - spiega il cineasta originario di Crotone - sono 200mila gli italiani, tra i quali tanti calabresi, passati sugli stessi sentieri ora battuti, ogni notte, da persone alla ricerca di un futuro».
D’Alife, quando ha deciso di indagare sulla rotta migratoria delle Alpi Occidentali?
Nel 2017, scosso dalla notizia di due ragazzi africani precipitati in un burrone e dalla scoperta della chiusura delle sale d’attesa ferroviarie di Oulx e Bardonecchia, per evitarne l’utilizzo da parte dei profughi. Come ha condotto le sue ricerche? Sono partito per documentarmi in loco e ho lavorato un anno sul campo, per capire cosa stava accadendo e soprattutto per comprendere le dinamiche sociali del territorio, vero tassello mancante nella narrazione mainstream. Mi sono ritrovato in un "circo mediatico" dai toni assolutamente stereotipati. L’attenzione generale, inoltre, è durata poco, per poi continuare a riaccendersi ad intermittenza.
Quali problemi ha rilevato?
Non si raccontavano le dinamiche del territorio. Inoltre si parlava della "Via Lattea" come di una «nuova rotta migratoria», mentre è un percorso battuto da secoli. Che soluzione ha adottato per fare chiarezza? Quella di far coesistere nel film linguaggi e registri diversi: ad esempio ho scritto delle sequenze d’animazione per rendere conto della parentesi storica, ispirandomi a fatti reali e a ricerche universitarie. Pur scegliendo come soggetti per i disegni dei calabresi in esodo, ho evitato la retorica del "quando gli emigranti eravamo noi", preferendo piuttosto spiegare i motivi che inducono gli esseri umani a lasciare la propria terra.
Il documentario evidenzia anche la solidarietà di tanti abitanti delle località di confine...
Sono tanti e molto motivati. Insomma, la regola non scritta del mare vale anche in montagna: nessuno si lascia da solo.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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