Cultura

Sónar: avanguardia europea, cuore bresciano

Georgia Taglietti è dal 1995 nell'organizzazione del più importante festival europeo di elettronica. Ecco i segreti di un grande successo.
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Se dici Sónar parli del festival di musica elettronica più autorevole d’Europa. Il più vecchio. Un’istituzione. Roba da centomila spettatori almeno e più di 150 live condensati in tre giorni. I tentativi di imitazione si sprecano, ma pochi sono riusciti nell’impresa di diventare punto di riferimento sia in ambito sonoro che nel campo dei new media art. Sia di giorno, che di notte. Tenendosi stretto da un ventennio un ruolo di avanguardia che garantisce una evoluzione costante. Sempre sulla cresta dell’onda.

Un traguardo che, pochi lo sanno, porta anche una firma bresciana. Quella di Georgia Taglietti. Col cognome che, a dire la verità, ne tradisce immediatamente le origini. Mentre l’accento, col tempo, ha più influenze di Catalunya che di via San Faustino. È proprio Georgia a giostrare le fila del gigantesco evento barcellonese, fin dai suoi primordi. La 48enne, bresciana di Spagna, è un’autorità del settore. Capo supremo della comunicazione, da lei passano tutti i rapporti con la stampa internazionale. In più è di fatto il braccio destro - l’assistente esecutivo - dei tre boss del Sónar, che affianca da due decenni. Coccolata dalle testate estere, intervistata dal The Guardian e dalle riviste più influenti dell’ambiente, ha mosso i primi passi in Spagna appena finito il liceo.

Georgia, come sei arrivata da Brescia a Barcellona e poi ai vertici di un evento internazionale? Sono partita a Brescia a 18 anni, dopo il diploma al London College. I miei avevano una casa a Cadaqués e un’amica spagnola mi ha proposto di spostarmi per frequentare l’Università. A Barcellona aveva appena aperto la Facoltà di giornalismo e pubblicità e a quei tempi, in Italia, non c’erano grandi opportunità. I miei mi hanno sostenuto, dicendo che se dovevo scegliere fra Milano e la Spagna tanto valeva che facessi il salto.

E poi che cosa è successo? Ho lavorato per alcune testate e in vari studi di grafica e design. A un certo punto ho anche valutato l’ipotesi di trasferirmi a Parigi, ma poi a Barcellona ho avuto la grande opportunità. Mi hanno contattato dal Sónar: era la seconda edizione, nel 1995. Volevano che ridisegnassi il loro catalogo. Da allora non mi sono più mossa. Vengo da una famiglia con un ricco background musicale e ho sempre avuto una spiccata sensibilità per questo ambito. Quelli del Sónar mi hanno detto: resta. E così è stato. Per un po’ ho collaborato, lavorando come freelance. Poi sono diventata parte dell’ufficio comunicazione. Praticamente sono cresciuta col festival.

Qual è, nello specifico, il tuo ruolo? Cosa vuol dire essere il capo della comunicazione internazionale? Faccio tutto quello che implica la parola. In più mi occupo in particolare delle reti sociali, delle community. Ambiti che stanno prendendo sempre più piede. Per metà dell’anno lavoro praticamente sola, per la restante metà gestisco un team di sei persone. Il Sónar non si limita infatti al solo evento madre di Barcellona, ma comprende tutta una serie di appuntamenti satellite. Per fortuna con me c’è la preziosa Enrichetta, italiana anche lei, ma di Napoli.

Che evoluzione ha avuto il Sónar in questi anni? Come ha fatto a mantenersi sempre giovane? Il metodo per garantire il successo non è ricorrere a continui cambiamenti. Se il successo c’è bisogna amministrarlo, coltivarlo. È questa la sfida in cui mi sento più partecipe e coinvolta. Il Sónar ha una formula apparentemente semplice: è un contenitore per tutto ciò che è musica elettronica e arte innovativa, d’avanguardia. Questo non è cambiato negli anni: siamo rimasti fedeli alla linea. Solo abbiamo lavorato quotidianamente per consolidare quanto costruito. È un compito gratificante.

La Spagna è un Paese simile all’Italia, ma pare che da noi sia difficile realizzare qualcosa di simile al Sónar. Perchè? Il contesto italiano è più complesso di quello spagnolo. Però qualcosa c’è e si muove nella direzione giusta. E non dove la gente si sarebbe aspettata. Se in Italia ci fosse stato da scommettere, la prima scelta sarebbe stata Bologna. E invece è stata un fallimento. La vera sorpresa è Torino, che sta mettendo in campo uno sforzo culturale davvero grande. C’ero stata da giovanissima, con mia madre, per incontrare Armando Testa. Mi ero ritrovata in una città chiusa, grigia, ferma. Oggi è tutto diverso. Torino è una città per i giovani. Penso al grande lavoro del Club To Club, una manifestazione che stimo molto. A Roma, invece, c’era Dissonanze, la meravigliosa creatura di Giorgio Mortari. La sua morte ha bloccato tutto. Il problema è che in Italia mancano i veri promoter, che abbiano voglia di fare qualcosa e che lo sappiano fare. E poi qualche colpa ce l’hanno le Amministrazioni, che non sono disposte a concedere gli spazi. Il successo di un festival dipende da come lo fai, ma anche molto dal dove.

Quella dei festival è una cultura sempre più diffusa. Perché questa affezione? Cosa è cambiato nel modo di fruire la musica? C’è una ragione sociologica ben precisa per questo fenomeno. Il festival è la trasposizione dell’online in offline. È l’approccio virtuale alla musica che si fa carne ed ossa. Tutto quello che si ascolta nel corso dell’anno su Soundcloud e Beatport, che si scarica o si compra dal web, si riversa, a un certo punto, in queste grandi agorà. Questi microcosmi che radunano sempre più artisti e propongono sempre più live. È una cosa che un concerto solo non riesce a fare. I festival, allora, sono sempre più grandi. Corrono in parallelo all’esperienza online, che è sempre più bulimica. E il festival, una parola che è essa stessa in discussione, diventa quasi un’esperienza di browsing, in cui passi da un palco all’altro, da un act all’altro.

La formula vincente del Sónar ? I cardini sono tre. In primis l’urbanità dell’evento: pochi festival hanno una simile rilevanza urbana. Poi la scelta di sostenere la musica elettronica e seguire questa linea senza deviare. Infine, c’è la stretta connessione con Barcellona, che negli anni ha avuto un boom turistico importantissimo. All’epoca, vent’anni fa, non era scontato. Genova, Marsiglia, o anche Roma potevano avere lo stesso exploit. Invece, una serie di fattori quasi magici hanno fatto sì che proprio Barcellona diventasse città di riferimento per i giovani e per questo tipo di tendenze. Per questo è quasi impossibile copiare il Sónar.

Il bilancio dell’edizione 2014? Sicuramente positivo. E ciò che per noi è più significativo è che il Sonar de Día abbia raccolto la stessa affluenza degli eventi serali. In questo modo il festival risulta più equilibrato, ancora più bello e attrattivo.

E adesso che succede? Sei già al lavoro per il Sónar 2015? Adesso è tempo di bilanci. Poi, subito, si comincia a pensare alla comunicazione dei prossimi eventi. A dicembre c’è Cape Town. Poi a febbraio andiamo a Stoccolma e Reykjavík; a marzo a Copenhagen. Ovviamente a giugno ci sarà il Sónar 2015, ma noi già stiamo già lavorando anche per l’appuntamento di Tokio, nell’ottobre 2015, e poi quello stesso inverno Bogotà e Santiago. Non ci fermiamo proprio mai.

E a Brescia, ci torni mai? Poco. Ma di recente è successa una cosa curiosa. Mio marito, un ingegnere catalano, è stato mandato un mese a Brescia per lavoro. Ci abbiamo riso su. È la legge del contrappasso. Mia madre, ovviamente, era felicissima di potersi coccolare il genero.

Ilaria Rossi

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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