Simone Moro: «Il Covid non mi ha tolto la voglia di avventura»

È l’unico alpinista ad aver scalato in prima invernale quattro cime di ottomila metri, è arrivato quattro volte sull’Everest, il rischioso salvataggio di un compagno gli è valso nel 2001 la Medaglia d’oro al valor civile. Il bergamasco Simone Moro sarà - sabato 5 settembre alle 18 - a Montisola, nell’area feste Menzino, ospite con il suo ultimo libro (intitolato «I sogni non sono in discesa», Rizzoli, 288 pagine, 22 euro) del secondo appuntamento della rassegna «Sapiens», promossa dall’associazione culturale Reading - Voci dal Lago: otto incontri (qui accanto il calendario completo) distribuiti nelle province bresciana e bergamasca, per invitare le due città «a fermarsi per rimettersi in moto», ascoltando testimonianze e riflessioni di personaggi eminenti in diverse discipline.
Tutti gli incontri sono gratuiti, ma con prenotazione obbligatoria a info@readingvocidallago.eu. Per ulteriori informazioni, è possibile consultare il sito: www.readingvocidallago.eu. Abbiamo intervistato il primo protagonista. Simone Moro, dopo la pauda del lockdown, Lei ha ripreso a progettare spedizioni? Ho un nuovo progetto, ma ora il Covid-19 sta galoppando in paesi troppi connessi con i luoghi che frequento: India, Nepal, Pakistan. Tutto è in stand-by, ma io mi tengo allenato. Mi sto preparando anche per un progetto sulle Alpi, di cui per ora non posso parlare. Ho cambiato il luogo, ma non mi è certo passata la voglia di avventura.
Ha superato i 50 anni, che bilancio fa della sua esperienza? Penso che è valsa la pena credere in un sogno che a molti sarebbe apparso folle o utopico. Da bergamasco, nato e vissuto in città, sin da ragazzo ho sognato di fare l’alpinista e per diventarlo ci ho messo l’anima. Ho realizzato il mio sogno, l’ho fatto diventare una professione e ho raggiunto risultati ritenuti significativi. In più, ho ancora tutte le dita di mani e piedi: vuol dire che sono stato fortunato e anche abbastanza lucido per rinunciare quando bisognava, e vincere quando era il momento. Nel gennaio scorso, però, ha corso un grosso rischio: sul Gasherbrum I, nella regione himalayana, è precipitato in un crepaccio per venti metri... È stato un rischio statistico. Ho fatto 60 spedizioni, ognuna della durata di tre mesi: un totale di 15 anni. Se una persona guida la macchina per 15 anni 24 ore al giorno, pensa di non fare mai un incidente? Quando avviene su un ghiacciaio fa più notizia, ma per me è normale amministrazione. Non è accaduta una tragedia grazie a fortuna e preparazione: eravamo allenati, ben legati, col materiale giusto.
Perché si è concentrato sulle grandi salite invernali degli ottomila? Per il desiderio di esplorare. Tu puoi essere un alpinista che ripete le vie altrui, oppure uno che crea nuove vie, o quello che addirittura esplora e apre nuove frontiere all’alpinismo. Io non volevo essere la brutta copia di nessuno. Se uno stravolge la propria vita, deve essere per aprire un percorso nuovo. Volevo scrivere la storia ed essere così di stimolo a chi, in qualunque altra disciplina, ha l’ambizione di fare lo stesso.
È stato molte volte sull’Everest, una montagna simbolo nel bene e nel male... Sono passati quasi 30 anni dalla prima volta, nel 1992. Allora l’Everest era un simbolo alpinistico, oggi è purtroppo il simbolo di arrivismo e consumismo. Tra coloro che l’hanno scalato fino ad ora, il 20 per cento sono veri alpinisti. Gli altri volevano la patacca di alpinista per primeggiare nel loro ambiente. L’Everest rimane una montagna bellissima, impegnativa e pericolosa, perché le difficoltà sono state solo addomesticate.
Ha vissuto sui ghiacciai i grandi cambiamenti ambientali? In 30 anni ho visto i ghiacciai trasformarsi in Himalaya e sparire sulle Alpi. È come un’altra pandemia, niente è stato risparmiato dal riscaldamento globale. Bisogna reagire, ma farlo prima di tutto modificando i nostri comportamenti quotidiani.
Come si imparano la lentezza e l’attenzione necessarie nella sua disciplina? La risposta è semplice: si imparano in famiglia. Soltanto lì si possono apprendere il senso della modestia, del rispetto, del tempo, dei propri limiti. Oggi, invece, è importante essere arroganti, sfacciati, coraggiosi nella villania. Tanti vivono, poi, l’alpinismo come una specie di fuga dal mondo: ma se si negano le basi della responsabilità, le radici nella vita quotidiana, si rischia di ritrovarsi in montagna spaesati e di non essere d’esempio per nessuno.
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