«Siamo tutti invalidi: abbiamo bisogno di amici e comprensione»
Ci sono molti modi per raccontare la disabilità. Quello scelto da Alessandra Sarchi scava le profondità della condizione che costringe la protagonista narrante su una sedia a rotelle, a causa di un incidente automobilistico.
«La notte ha la mia voce» (Einaudi, 165 pp. 16,50 euro) romanzo con il quale la Sarchi è finalista alla 55ª edizione del Premio Campiello che sarà assegnato a Venezia il 9 settembre, potrebbe sembrare un requiem per il corpo spezzato: invece è una liturgia curativa, un corso propedeutico per apprendere la disciplina dell’immobilità.
La giovane si interroga, ricorda, calcola emozioni, somma le dispersioni della vita in una sorta di sdoppiamento in cui il «prima» e il «poi» interagiscono come valvole che regolano differenti pressioni emotive. Quando conosce Giovanna (anche lei menomata: ha perso una gamba), che chiama la Donnagatto per il suo apparire e sparire continuamente, la sua ragione d’essere si converte alla lotta contro il dolore, cercando nella fantasia i circuiti che elettrizzano l’esistenza e convertono a futuri creduti impossibili.
Questo romanzo è una prosecuzione dei suoi libri precedenti per quanto riguarda argomenti ricorrenti della sua narrativa, come la tematica del corpo?
Anche se molto diverso come struttura narrativa «La notte ha la mia voce» non è poi così lontano dai temi dei miei precedenti romanzi «Violazione» e «L’amore normale». L’attenzione per la corporeità intesa come luogo di conoscenza è un filo continuo della mia scrittura. Così come il conflitto natura/cultura che in «Violazione» si esprimeva nel rapporto con il paesaggio e il territorio, ne «L’amore normale» si articolava nelle relazioni affettive, sempre in bilico fra datità biologica e costruzione sociale; e nel mio ultimo romanzo trova sede nell’identità corporea e psichica stessa dell’io narrante e della sua amica-alter ego.
La disabilità come incentivo per affrontare con maggiore coraggio le difficoltà dell’esistenza?
La disabilità è una condizione in cui l’essere umano può trovarsi per nascita o per accidente e di per sé non credo costituisca un incentivo all’avere coraggio o forza più di qualsiasi altra difficoltà. Né l’io narrante né la sua amica Giovanna sono diventate persone coraggiose per il trauma che hanno subìto: hanno cercato di adattarsi, di trovare una maniera per convivere. L’idea che la sofferenza ci renda migliori o provi la nostra forza ha una matrice di moralismo consolatorio che mi è del tutto estranea.
Sono numerosi i richiami extra letterari del romanzo che persegue una sua visione filosofica della scienza e della vita attraverso rifiuti e privazioni imposti alla protagonista dalla sua condizione. Una lettura minuziosa del corpo e dei suoi limiti?
Si sta diffondendo la percezione che il corpo non sia più solo natura, se mai lo è stato per intero, ma un’interazione complessa fra biologia, cultura e tecnologia. Sopravviviamo a malattie mortali e amputazioni grazie alla tecnologia medica. Rimediamo ai danni del tempo con la chirurgia estetica, procreiamo artificialmente. Dunque, portiamo innestato in noi un segno protesico che se vogliamo risale alla continua educazione che fin da quando nasciamo s’impone alla nostra fisicità. Parlare di limiti del corpo significa interrogarsi sui confini stessi della vita. C’è chi li sperimenta trovandosi disabile, e chi invecchiando, misurandosi con la malattia o la sterilità a procreare.
Nel dialogo con la Donnagatto la voce narrante è stimolata a responsabilizzarsi: la disabilità è un impedimento ma non una demotivazione. Quanta ribellione c’è in questo concetto di vita?
Il dialogo fra io narrante e Donnagatto mette in scena due modi di affrontare un problema: l’uno più introspettivo, l’altro più estroverso. La Donnagatto appare disinvolta e spavalda, ma in realtà nella sua audacia c’è molta rimozione. Ribellarsi ai limiti, soprattutto quando nascono da una mancanza di sensibilità e cultura come accade verso la disabilità, è normale, ed è sano. Rimane il fatto che il limite interiore, quello causato da una ferita ricevuta, va capito, ascoltato ed elaborato.
La protagonista ha nella Donnagatto una sorta di incitatrice. L’amicizia, la solidarietà, quanto sono importanti per superare l’invalidità?
Questo romanzo è anche la storia di un’amicizia, che è uno dei luoghi più veri e più belli per potersi dire, per poter riconoscere e mettere alla prova chi si è. Da questo punto di vista siamo tutti invalidi, perché abbiamo tutti bisogno di amici, di comprensione vera, affetto e supporto.
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