Ritratti d'autrice di donne dal carcere al Museo Diocesano
Al Museo Diocesano di Brescia è stata inaugurata «Per voce sola, volti e voci delle donne dal carcere»: l’ha ideata la fotografa Elisabetta Marchina e più che un’esposizione fotografica è un percorso sensoriale riflessivo che, lasciando che spettatori e spettatrici camminino nel buio espositivo, parla con delicatezza della condizione delle donne incarcerate negli istituti penitenziari italiani.
Si trova al piano terra del museo cittadino in via Gasparo da Salò diretto da Mauro Salvatore e sarà visitabile fino al prossimo 28 aprile (compresa nel biglietto d’ingresso al museo). Una ventina di ritratti in bianco e nero mostrano la bellezza e la spontaneità di un gruppo di detenute con cui Marchina ha avuto a che fare nel 2019, corredate da pensieri e riflessioni elaborate dallo psicologo Luca Castellari, che si è basato sulle testimonianze raccolte dalla stessa artista durante il suo lavoro nel carcere di Bollate.
Marchina ha sempre fotografato le persone per conoscerle — ha spiegato durante la presentazione, alla presenza di numerose rappresentanti dell’assessorato e della Commissione Pari Opportunità del Comune di Brescia, oltre che della presidente del Museo Nicoletta Bontempi — e per mettere in discussione il proprio punto di vista. «Già al liceo andavo all’ospedale psichiatrico per catturare gli sguardi dei degenti», racconta la fotografa. «Ho sempre fotografato e negli ultimi anni ho pensato di rivolgere l’occhio alle case circondariali. Ho potuto entrare nel carcere di Bollate, un istituto ‘modello’ rispetto a tanti altri. Avevo una mia concezione rispetto alla prigionia, costruita tramite i giornali e i racconti. Lì però ho trovato anche molta libertà interna. Le detenute hanno deciso — dopo un po’ — di aprirsi a me. Ci sono stata per venti giorni, ho eseguito il servizio fotografico, ho lasciato che le detenute concedessero qualche intervista a un’amica filosofa e mi sono fatta raccontare il loro percorso di vita».
C’era chi aveva ucciso il marito, chi era in carcere per errori fatti per aiutare la famiglia, consapevole dei propri reati, chi per droga, chi per altri motivi. «Ho lasciato le interviste nel cassetto e per qualche anno non le ho lette. Quando le ho riprese in mano ho notato che nessuna di loro aveva mai usato la parola ‘libertà’. Perché la loro libertà l’hanno costruita all’interno del carcere. Ho iniziato a riflettere su questo concetto, ma è troppo grande». E così lascia che siano le immagini a parlare, insieme ai pensieri di chi la vera libertà, quella consueta, l’ha persa.
Anche Luca Castellari rimarca di questa mostra la parola «libertà». «Per quanto sembri un ossimoro, la mostra desidera porci davanti ad alcuni interrogativi e la libertà è qualcosa di importante su cui avere consapevolezza. La fotografa non aveva dato indicazioni di make up o posa alle detenute. Le vediamo esattamente come loro hanno scelto di porsi davanti all’obiettivo. Anche in questo dettaglio si scorge la libertà». Il suo consiglio per approcciarsi alle immagini, da psicologo, è quello di «osservare le foto guardando fuori e guardando dentro, prendendo coscienza di cosa evocano in noi, senza giudicare ma accorgendoci delle impressioni ed emozioni, pensieri e valutazioni che risvegliano in profondità».
Oltre all’esposizione il progetto di Elisabetta Marchina è confluito in una pubblicazione: il libro «Per voce sola» è edito da Marco Serra Tarantola e contiene le interviste complete, oltre alle fotografie che non hanno trovato posto nel percorso espositivo.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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