Cultura

«Ritmo, poesia, dolore: vi racconto le pagine della "mia" Han Kang»

Francesco Mannoni
Parliamo della scrittrice coreana con la sua attuale traduttrice, Lia Iovenitti: «Donna riservata eppure affabile. La sua scrittura non nasce da uno scopo, ma dall’esigenza di narrare»
La scrittrice coreana premio Nobel per la letteratura Han Kang - © www.giornaledibrescia.it
La scrittrice coreana premio Nobel per la letteratura Han Kang - © www.giornaledibrescia.it
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A soli 54 anni, la coreana Han Kang, fra le scrittrici è la più giovane finora ad aver vinto il premio Nobel per la letteratura. Autrice di sei romanzi (i più famosi sono «La Vegetariana» vincitore nel 2016 del Man Booker Prize e «Atti Umani» con il quale nel 2017 a Napoli ha vinto il premio «Malaparte» che in qualche modo ha anticipato il Nobel), di alcune raccolte di racconti e di poesie, a Stoccolma ha ricevuto l’ambìto premio dalle mani del re di Svezia. Il suo ultimo romanzo da poco pubblicato in Italia da Adelphi editore di tutti i suoi libri, s’intitola «Non dico addio» (412 pagine, 20 euro). La vicenda narrata ripropone un fatto storico, un trauma che ha scosso la Corea del Sud, tragico e indimenticabile anche se si vorrebbe obliarlo.

Parliamo di Han Kang con la sua attuale traduttrice, Lia Iovenitti, che vive stabilmente in Corea. Laureata in giapponese e coreano, ha lavorato come traduttrice e interprete alla segreteria dell’Ambasciata italiana a Seul per dieci anni. È coautrice del libro «Benvenuti in Corea» (Mondadori Electa 2022), ed ha da poco vinto il premio come miglior traduttrice dell’anno bandito da un settimanale letterario.

Signora Iovenitti, ha incontrato o sente spesso Han Kang?

Sì, ho avuto la fortuna di conoscerla. È successo durante la presentazione di Non dico addio in una delle principali librerie di Seul, città in cui vivo e lavoro da oltre venticinque anni. A dispetto della sua immagine, è una persona affabile, con una forte e bella energia. Non abbiamo avuto modo di parlare molto, io ero emozionatissima. Ma del resto, come ripete sempre, lei parla attraverso i suoi libri. Forse non tutti sanno che, ancora prima di vincere il Premio Nobel per la letteratura, Han Kang in Corea era già una star. Dopo l’uscita di Atti umani (2014), libro amatissimo dai lettori di tutte le età, e soprattutto dopo la vittoria del Booker International Prize per La vegetariana (2016), ha assunto un’aura di mito, forse anche dovuta al fatto di essere notoriamente riservata e di centellinare le comparse in pubblico.

Cosa emerge dalla «voce» della scrittrice?

Dalla voce di Han Kang emergono il ritmo, la poesia, il messaggio e direi anche il sottile dolore che sottende a volte le sue pagine. In breve, tutto ciò che non è quantificabile in numeri e percentuali e che fa di un romanzo un grande romanzo.

Ha avuto difficoltà nel tradurla?

Ci sono vari tipi di difficoltà. Prima di tutto, quelle insite nella lingua stessa: il coreano non distingue tra maschile e femminile, singolare e plurale. E non teme le ripetizioni, che in italiano invece sono un tabù letterario. Poi ci sono le difficoltà tecniche: per esempio in Non dico addio, interi passaggi sono in dialetto di Jeju, che gli stessi coreani capiscono a malapena. A questo si aggiungono le difficoltà specifiche dei libri di Han Kang: da lettrice, sapevo fin dalle prime righe di avere tra le mani un classico del futuro (o un futuro classico), cioè un libro che si può leggere e rileggere senza annoiarsi, e anzi trovandovi sempre risposte diverse. Da traduttrice, la sfida è rendere questa qualità, cercando di fare in modo che tra qualche anno non risulti un linguaggio troppo datato. Il nostro lavoro è stato definito in tanti modi, e tra questi «il sistema circolatorio delle letterature del mondo» mi piace molto. Farne parte è un grandissimo privilegio ma anche una grande responsabilità.

L’avversione di Han Kang per la violenza consiste nel denunciare una simile pratica della quale parla nei suoi romanzi, con riferimento al massacro di Gwangju nel 1980 («Atti umani»), e di Jeju in «Non dico Addio»: la sua è anche una condanna morale contro ogni violenza e la guerra che ha devastato e poi diviso il suo Paese?

Han Kang ha dedicato anni allo studio delle testimonianze del massacro di Jeju - solo il rapporto della Commissione parlamentare contiene oltre 6.000 pagine -: un orrore insabbiato nei decenni dei governi militari, e in parte rimosso dalla memoria collettiva. Non sono un critico letterario, ma la mia sensazione da lettrice e traduttrice, è che il suo intento si riassuma in un passaggio di Non dico addio: «Quei bambini. Bambini morti nel nome di una volontà di sterminio. Mentre avanzavo... sono stata colta da un pensiero improvviso: eccoli, sono loro. Avevo la sensazione che la mia pelle fosse trafitta da migliaia di aghi trasparenti, attraverso cui la vita si riversava in me, in una specie di trasfusione».

Questa specie di trasfusione, secondo lei, avviene anche nei lettori?

Credo proprio di sì, e la condanna morale, lo sdegno, o qualunque altra reazione, ne sono la conseguenza. La scrittura di Han Kang nasce da un’urgenza di narrare, più che da uno scopo. Non vuole persuadere o commuovere il lettore: nei suoi libri non troverete mai i famosi «hook». Per questo, forse, è ancora più intensa e dirompente.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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