Cinque libri consigliati dalla redazione del GdB per marzo
Tre romanzi, da un giallo che è un’avventura processuale fino alle vicende di chi nasce, vive e poi esce da un manicomio. E poi una raccolta appassionante di storie di figure del mondo della cultura amanti delle biciclette, quei «Vagamondi» dei quali non avevamo ancora sentito parlare.
Sono i libri consigliati per marzo dalla redazione del Giornale di Brescia. Qui trovate i titoli di febbraio: andando a ritroso seguendo i link trovate i consigli di ogni mese.
«L’orizzonte della notte»
di Gianrico Carofiglio
(Einaudi, 2024, pp. 277, euro 18,50)
La libreria di Ottavio è aperta solo di notte. Non è un caso, forse, se con lui l’avvocato Guido Guerrieri condivide la passione di canzoni in tonalità minore.
Con lo psicanalista junghiano Carnelutti scopre invece, quando il romanzo si avvicina alle pagine finali, di aver partecipato allo stesso, memorabile, concerto che Leonard Cohen tenne nel settembre del 2012 all’Arena di Verona. Ed è la prova, questa, che dopo cinque anni l’avvocato Guerrieri è tornato, ma non da protagonista assoluto. La biografia di Gianrico Carofiglio corre di pari passo con i tormenti di Guerrieri, le sue meditazioni, il suo disincanto nei confronti di una giustizia di cui conosce l’alternarsi dei lampi di luce e delle notti profonde.
La citazione di Cohen è la prova che Carofiglio affida alcune parti di sé ai protagonisti del romanzo perché quel 24 settembre del 2012 lui ha vissuto quella notte perfetta in un’Arena rapita dal fascino e dalla complessità dell’indimenticabile poeta, cantautore e romanziere Leonard Cohen.
In libreria da meno di un mese, «L’orizzonte della notte» era un romanzo atteso, il settimo con protagonista Guerrieri, e la posizione nelle classifiche di vendita conferma l’attenzione nei confronti dell’avvocato barese e delle sue vicende, narrate con lo stile asciutto e profondo dell’uomo di legge. Carofiglio, prima di diventare un politico e poi uno scrittore, è stato per anni Sostituto Procuratore Antimafia al Tribunale di Bari.
Una donna ha ucciso a colpi di pistola l’ex compagno della sorella. Si è trattato di legittima difesa o di omicidio premeditato? La Corte è riunita in Camera di Consiglio. In attesa della sentenza l’avvocato Guerrieri ripercorre le dolorose vicende personali che lo hanno investito nell’ultimo anno.
Ed è travolto dagli interrogativi che spaziano dal tempo trascorso al senso della sua professione, fino a quello della giustizia. Si legge, in un passaggio del romanzo, della necessità di «accettare l’idea che sbagliare non è una catastrofe, è un passaggio fondamentale dell’evoluzione. Una forma di armistizio con noi stessi. Un modo per diventare persone migliori. Senza commiserazione e senza risentimento».
La legittima difesa è uno dei temi del libro ed è un interrogativo cui Guerrieri cerca di trovare risposte nel costruire l’impianto difensivo della donna accusata di omicidio. Lo spiega lo stesso Carofiglio: «Sono inciampato nel tema dei limiti della legittima difesa, che è uno dei temi centrali del libro. Su come riuscire a provarla e dei suoi spazi anche etici. Nel romanzo la questione fondamentale, più ancora che quella risoluzione del processo all’imputata accusata di un omicidio che sicuramente ha commesso, il dubbio è solo se l’abbia commesso in presenza o meno della legittima difesa, è una domanda che desidero che il lettore si ponga: nel caso sussiste o no questa legittima difesa? Ed è la domanda che si pone anche Guido Guerrieri, un dilemma di conoscenza ed etico che attraversa tutto il romanzo e va a innestarsi fra le questioni di cui lui parla con lo psicoanalista».
Alla fine, seduto sulla poltrona del terapeuta, il «nostro» avvocato dichiara: «… non so se ho ancora voglia di fare questo lavoro. Anzi, lo so benissimo. Non ne ho più voglia. Una volta ho letto una cosa del genere: il nostro Io conscio è come un avvocato che, dovendo giustificare l’operato del proprio cliente, fornisce scuse per decisioni che sono state già prese, per condotte che sono state già tenute. Non mi ricordo di chi è questo concetto, ma mi sembra calzante. Facciamo delle cose, magari per caso o magari per ragioni poco nobili, o addirittura ignobili. Poi le raccontiamo e ce le raccontiamo inventando motivazioni rassicuranti che non sono mai esistite».
(Anna Della Moretta, redazione Cronaca)
«Grande meraviglia»
di Viola Ardone
(Einaudi, 2023, pp. 297, euro 18)
Lei si chiama Elba, come il grande fiume della Germania del nord che ricorda casa alla sua «Mutti». Al «mezzomondo» ci è nata e cresciuta, in una vita da reclusa per nessun’altra ragione che quella di essere figlia di un’internata. Lui è il «dottorino», uno psichiatra irriverente della scuola di Franco Basaglia che vuole chiudere il manicomio e che, incapace di dimostrare amore alla sua famiglia, elegge Elba a sua figlia, ponendosi come obiettivo di vita quello di portarla fuori dal Fascione e farla studiare.
In «Grande Meraviglia» il presente congelato eppure vivissimo del mezzomondo è raccontato attraverso gli occhi di una ragazzina bionda e acuta, che con il suo «Diario dei malanni di mente» fa ridere e commuovere chi legge il bel romanzo di Viola Ardone. Le sofferenze delle persone con malattie psichiatriche chiuse dentro al Fascione emergono in tutta la loro crudezza: c’è la pratica degli elettroshock eseguiti dalla solerte Lampadina, ci sono le caramelle rosse e blu, ci sono le cinghie, c’è il mutismo doloroso della Nuova. La rivoluzione di Basaglia prende corpo prima timidamente nella psicoterapia introdotta dal dottorino, poi in modo dirompente nella partita di calcio tra i matti e nella storia di rinascita di Elba, che anche una volta accolta in casa del dottorino rimarrà con il cuore al Fascione, la prigione della madre resa pazza dal manicomio.
Nel romanzo si alternano le voci in prima persona di Elba e di Fausto Meraviglia, il dottorino che per il resto dei suoi giorni, ormai stanco e disilluso, non farà che tornare con la mente a lei in un dialogo ininterrotto. La narrazione scorre fluida e accattivante, per quanto veloce evita immagini ed espressioni banali, e anzi: è un romanzo che sa restituire in modo preciso la complessità della legge 180, che ha insieme liberato ed esposto all’orlo del precipizio chi non ha più niente e nessuno nel mondo al di là del cancello.
(Laura Fasani, redazione web)
«La donna da mangiare»
di Margaret Atwood
(traduzione di Guido Calza, Ponte alle Grazie, 2020, pp. 391, 18 euro)
Marion ha un lavoro qualsiasi che lascerà senza rimpianti perché sta per sposarsi con Peter: solido, affidabile. Prevedibile. Nel suo orizzonte si stagliano alcune figure di donne: la coinquilina Ainsley in cerca di un padre per il figlio che ha deciso di avere da single, Clara che invece ha messo su una famiglia tradizionale e ne è sfiancata, le tre colleghe a caccia di marito… poi ci sono gli uomini, tra cui Duncan: l’atopos destinato a sparigliare le carte di un destino che sembra segnato e che la stessa Marian ha cominciato a rifiutare (senza rendersene conto) insieme a certi cibi. Ma non è solo questo. Il romanzo «La donna da mangiare» non è solo una storia, la storia concepita e scritta tra il 1962 e il 1965 da una giovanissima Margaret Atwood - classe 1939, autrice tra l’altro del celebre «Racconto dell’Ancella» da cui sono stati tratti un film e una serie televisiva.
Il libro uscì nel 1969, in coincidenza con l’affermazione del femminismo in Nord America, come ricorda la stessa Atwood, canadese, nella postfazione del 1979 (dove precisa anche che il suo primo romanzo non è questo, ma un altro rimasto inedito perché «troppo tetro»); proprio considerando la sua lunga gestazione, però, non può essere ritenuto «figlio del movimento».
E in effetti la lettura oggi di «La donna da mangiare», pur suggerendo una riflessione su scelte femminili e condizionamenti sociali tra il passato in cui fu scritto e un presente per certi versi ancora problematico, dice qualcosa d’altro. Dice di quel momento in cui una donna decide intimamente che persona vuole essere (Marian, scrive Atwood, «desiderava soltanto sapere chi sarebbe stata, che direzione stava prendendo…»). E lo fa con leggerezza apparente, ovvero con un’ironia che nulla toglie alla serietà di una decisione fondamentale per il vero destino di ognuna: negli anni Sessanta, oggi e in futuro.
(Francesca Sandrini, redazione Cronaca e provincia)
«I Vagamondi - Scrittori in bicicletta»
di Claudio Gregori
(Edizioni 66thand2nd, 2023, euro 18, ebook 10,99)
Mezzo popolare, alla portata se non di tutti quantomeno della maggior parte delle persone. Strumento di libertà ma pure veicolo di idee e vettore prediletto di geniali pedalatori. Insomma, la bicicletta si rivela un trait d'union a due ruote tra insigni esponenti dei saperi più vari, della scienza, della letteratura come del giornalismo. I «Vagamondi», per l'appunto. Nessun refuso, anzi, un'adorabile variatio quella che fa da eloquente titolo all'agile volumetto con cui Claudio Gregori, firma prestigiosa del giornalismo sportivo e del ciclismo in particolare, ci porta alla scoperta della passione, più o meno segreta, per la bici di grandi figure della cultura degli ultimi due secoli.
Possiamo incontrare così Emilio Salgari, che se non impose le due ruote alle sue Tigri di Mompracen, fu pur tuttavia nella vita formidabile corridore e promotore della pratica sportiva del ciclismo. O, varcando i confini d'Italia, un insospettabile Emilé Zola, che a dispetto della stazza fisica non proprio da passista, fece della bici la propria complice per raggiungere celermente la donna oggetto della passione clandestina che gli darà due figli.
E via così, avanti e indietro per i decenni, ci imbattiamo, per citare solo alcuni dei personaggi trattati, in un Mark Twain che tenta disperatamente di apprendere la tecnica ardua dell'uso del velocipede, il padre del rutilante universo di Ubu, Alfred Jarry, che eleva il ciclismo agli onori degli altari, ma anche l'intraprendente Nobel Marie Curie, il poeta Giovanni Pascoli che alla bicicletta concede spazio nei Canti di Castelvecchio, per arrivare ad Albert Einstein, Carlo Emilio Gadda, Simone De Beauvoir, Oriana Fallaci e quel Gabo, in questi giorni nuovamente celebrato per l'uscita del suo romanzo inedito, che fu autore negli anni '50 della più lunga intervista ad un ciclista mai realizzata nella storia.
Gregori ci regala una preziosa teoria di celebrità in corsa sulle due ruote raccontate con penna leggera e divertita, ma al contempo una corposa riconferma di come la bicicletta sin dalle sue origini abbia avuto a che fare con una dimensione di viaggio che non è solo nello spazio ma soprattutto tra le idee, la forza emblematica del motore di libertà e consapevolezza, capace di suscitare entusiasmi e joie de vivre.
(Gianluca Gallinari, vicecaporedattore)
Vecchi bambini perduti nel bosco
di Margaret Atwood
(traduzione italiana di Guido Calza, Ponte alle Grazie, 2023, pp. 320 - 16,90 euro; e-book 10,99 euro)
Già il titolo è un capolavoro: «Vecchi bambini perduti nel bosco» è ispirato ad una fiaba inglese, e racchiude, in un’immagine tenera, la fragilità dell’età avanzata, lo spaesamento e anche la sensazione di trovarsi in una fiaba, o in un sogno, dai contorni incerti. Impossibile non innamorarsi dei racconti di Margaret Atwood, collezionati in questo volume dopo essere apparsi su riviste e raccolte.
Alcuni - quelli che hanno per protagonista la amorevole coppia formata da Nell e Tig - sono l’abbozzo di un romanzo, che inizia quando un corso aziendale di primo soccorso mette fine all’inconsapevolezza dei pericoli che si corrono vivendo, stato tipico dell’infanzia; e si conclude con Nell che - ormai consapevole della precarietà della condizione umana e avendo attraversato il dolore - fa pensieri pacificati. Altri racconti percorrono la via della distopia di matrice orwelliana (il filone che ha decretato il successo mondiale dell’autrice, particolarmente con “Il racconto dell’ancella”); in un testo compare (e parla tramite una medium) lo stesso Orwell; altrove sono gli alieni ad intrattenere gli umani con racconti. E sempre ci sono i vivi che entrano dolcemente in rapporto con i morti.
Sono, questi, racconti “sulla soglia”, ricavati dai pensieri e dalla quotidianità di chi fa i conti con l’inesorabile trascorrere del tempo. Malinconia e vitalità, dura realtà e immaginazione convivono. E nostalgia di persone perdute, oggetti che parlano di chi non c’è, ricordi che investono come onde, si stagliano vividi, in storie che - oltretutto - sono una fantastica scuola di scrittura, per chi volesse analizzarli in tale chiave. Vi troviamo una lumaca che è trasmigrata nel corpo di una funzionaria di banca, una madre fuori dagli schemi e tacciata di stregoneria, una residua comunità umana che cerca di riprodursi in maniera forzosa e protetta, perché la continuità della specie è minacciata da un virus che ha invaso il pianeta.
In vari contesti, le donne dialogano fra loro, come in certi libri di Doris Lessing. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, due sorelle (una è Nell) ricordano il loro passato in un cottage marcio, invaso dai topi, intaccato dal tempo che è passato, fra inutili ricordi e indecifrabili messaggi dall’aldilà. Parlano, stilano meticolosi elenchi di cose da sostituire, da rinnovare (elenchi che presto andranno perduti), fanno cose spericolate che due anziane non dovrebbero fare, cercano di vivere come hanno sempre fatto, pur avvertendo la sensazione di essere come “vecchi bambini sperduti nel bosco”.
L’autrice canadese, che scrive in inglese (il titolo originale del libro è “Old Babes in The Wood”) - nota per le sue battaglie sociali a favore dei movimenti femministi e pacifisti e a difesa dei diritti delle minoranze, più volte indicata come meritevole di un Nobel (per ora ha inanellato una cinquantina di premi, fra cui due Booker Prize), tradotta in 50 Paesi - affonda il suo scandaglio lucido e tagliente nell’animo umano, fa osservazioni che colgono nel segno. Alcuni racconti sono interpolati da poesie. Tutto parla di un’umanità alle prese con la sua caducità e con un tenace, benché non tracotante, attaccamento alla vita.
Perché gli uomini desiderano che qualcuno scriva le loro storie? Si domanda la scrittrice. E non fornisce una risposta esplicita, però racconta, e racconta…
(Paola Carmignani, redazione Cultura e Spettacoli)
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