Quando la gioventù portava i capelli corti

«Bòcia, mólta!». Il richiamo secco del muratore risuonava ogni volta che sulle impalcature la cazzuola cominciava a raschiare il fondo del secchio della malta. Destinatario dell’ordine - talmente indiscutibile da non aver neppur bisogno di appoggiarsi a un verbo - era il manovale (magüt, ma ci torneremo), quasi sempre un ragazzino alle prime armi che ancora stava imparando il mestiere. E quel ragazzino era chiamato bòcia, proprio come le reclute degli Alpini.
Ce lo ricorda la mail di Ivan da Iseo, uno dei tanti lettori che hanno iniziato a scriverci rispondendo all’appello di Dialektika: come si dice o come si diceva ragazzo in dialetto dalle vostre parti?
Bòcia, dunque. I dizionari etimologici mostrano che il termine richiama la boccia sferica e liscia e rimanda così ai capelli cortissimi che - appunto - caratterizzavano al tempo ragazzini, garzoni e reclute.
Lo stesso taglio radicale del crine che fa capolino anche dietro l’uso di tuš e tuša o di tóšo e toša (ce ne scrive Fabio da Lonato), appellativo che risuonava - e talvolta ancora risuona - nella zona più orientale della nostra provincia, quella che risente di più dell’influsso veneto. C’è dietro il latino tonsus (da tondére, tagliare/tosare) che ritroviamo anche in italiano nella tòsa delle pecore o nella tonsura dei chierici (guarda caso, una certa pelata in dialetto si chiama proprio ciarèga).
Allora: come si dice ragazzo in dialetto? Finora abbiamo gnaro, s-cèt, matèl, bòcia e tuš. Ma non è ancora finita, l’atlante che stiamo costruendo insieme ha bisogno di altro cemento. «Bòcia, mólta!»
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