Phil Borges, scatti con lo sguardo colmo di umana condivisione
Quando fotografare coniuga estetica con etica ed è l’espressione d’umana condivisione, esprime tutta la potenza dell’immagine. E se un fotografo sottolinea sul suo sito, il proprio fare «storytelling for social change», narrazione per il cambiamento sociale, merita attenzione, ma anche plauso. È il caso di Phil Borges, 79enne americano che da 30 anni gira il mondo con la fotocamera per testimoniare, ma anche proteggere e aiutare, le varie comunità indigene e tribali.
La mostra antologica che lui stesso ha inaugurato venerdì 22 ottobre alla Paci Contemporary Gallery di Giampaolo Paci e Monica Banfi (Brescia, via Borgo Wührer 53; zona rossa del parcheggio sotterraneo) è dunque, fino a febbraio 2022, assai più che l’esposizione di oltre 60 bellissime stampe a colori in grande formato (dal 50x60 in su, fino al panoramico 88x40).
È riprova di vita e arte militanti espresse fotografando luoghi e genti lontane non per fare esotismo, ma per sostenerne la causa, convinto - come scrive nel catalogo dell’esposizione (Silvana Editoriale; 55 pagg., 66 foto, 24 euro) - «che i ritratti e le storie individuali suscitino un’attenzione mirata alle questioni sociali e ambientali che le comunità indigene devono affrontare». Prima fra tutte la sparizione, entro 50-70 anni di metà delle seimila parlate minori esistenti sulla Terra: «Se metà della specie fosse minacciata di ciò - sottolinea Borges - saremmo spinti a fare molto di più per evitarlo. Invece l’allarmante tasso di estinzione culturale passa perlopiù inosservato. Muovendomi da Seattle dove vivo, fino a queste comunità tradizionali, ho capito quanto abbiamo perso nei rapporti con la gente e la Natura». Per l’autore di mostre e fotolibri come «Tibetan Portrait», «Enduring Spirit», «Women Empowered» e «Tibet: Culture on the Edge», la scintilla scocca nel 1993, quando su incarico del Dalai Lama documenta la violazione dei diritti umani e religiosi per l’invasione cinese in Tibet nel 1949, ma anche la spiritualità di quel popolo.
«Capii - racconta Borges - che il modo più efficace per raccontare una storia tragica o spiacevole è trasmetterla attraverso un messaggio positivo o di ispirazione». Così, dopo aver lavorato con National Geographic, collaborato con Amnesty International, Onu e iniziative umanitarie, ha scelto d’esprimere col genere del ritratto ambientale (né telo bianco a sfondo né pose in studio, bensì luoghi di vita dei soggetti) la sua maestrìa e la denuncia della perdita di quelle culture. Ecco allora i volti di bimbi/e; le microscene di vita (talora con la tecnica - di cui è stato pioniere - di decolorare in biancoenero il paesaggio di sfondo per valorizzare l’immagine principale); gli scorci naturalistici, come l’azzurrissimo lago glaciale Yihun Lhatso davanti a un monaco tibetano.
Il profilo d’un indiano d’America o gli occhioni d’una bimba kalash nel fitto d’una coltivazione. Le foto di Borges recano intensa bellezza ed empatico sollecito, giacché lui conosce (il catalogo ne cita nomi e storie) i soggetti, poiché prima di fotografare vive nella comunità per settimane, integrandovisi. Dice Giampaolo Paci: «Lo conosco da anni e posso dire che Phil è anzitutto una bella persona. Sa essere disponibile ed è animato da grandi principii. La sua fotografia mira a proteggere i più deboli». Estetica ed etica, appunto.
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