Perché ogni anno rivediamo «Il grande Lebowski»

Quando uscì al cinema, esattamente vent’anni fa, snobbammo «Il grande Lebowski», nonostante fosse piaciuto molto alla fidanzata dell’epoca. Anzi, forse proprio per quel motivo e perché intorno a noi, nel ristretto gruppetto cinefilo del liceo e anche oltre, il clima di entusiasmo attorno al film di Joel e Ethan Cohen era troppo alto. Quindi, nel dubbio snobbare, aspettando che passi l’hype. Così, tre anni dopo finalmente recuperammo col dvd, in un freddo Capodanno, e fu subito doppietta: prima in italiano, poi in inglese. «Uh, I'm just gonna go find a cash machine» (vado a cercare un bancomat) fu una delle frasi rimaste impresse nella memoria. E forse è questo il primo motivo per cui da allora il Capodanno è dedicato alla visione del Grande Lebowski: espiare la supponenza iniziale con la consapevolezza che l’arte, in ogni sua forma, è magnanima e consente di recuperare, se ci si mette amore e dedizione.

Ogni volta che l’abbiamo rivisto, siamo rimasti stupiti dal modo in cui improvvisamente, superati i tre quarti del film, l’atmosfera divertente e scombinata diventi cupa, tragica, fino a spegnere il sorriso. Non te lo aspetti mai, in fondo, che Walter si comporti in modo così sgradevole col signor Lebowski (c’è un modo più efficace per definirlo, ma non è elegante), che Donny muoia, che i nichilisti facciano paura («Allora è meglio la dottrina nazionalsocialista, Drugo. Se non altro, ha alla base l'ethos»), che tutto precipiti nel vuoto. Ecco un altro punto, allora: puoi iniziare l’anno ridendo, ma preparati per tempi più cupi. E stai tranquillo perché nemmeno questi dureranno in eterno: l’abbraccio con cui Drugo e Walter stemperano la tensione sulla scogliera, dopo avere sparso le ceneri di Donny Karabotzes, è il preludio al ritorno della luce. Si va al bowling, Drugo avrà un figlio, e in definitiva «the Dude abides», Drugo la prende come viene (la traduzione non è granché, ma è il meglio che ci venga in mente, anche se nel film si dice «Drugo sa aspettare»).

Se per tutti questi anni abbiamo continuato a rivederlo, è anche perché attorno a noi si è formata una comunità di adepti, altrimenti detti «the Achievers», che ha sviluppato un’ossessione sana per il Grande Lebowski, con cui condividere citazioni («Stai uccidendo tuo padre, Larry»), scambiare notizie (hanno abbattuto il bowling usato nel film, santo cielo), ricondividere citazioni («te lo procuro io il dito, per questo pomeriggio, smalto compreso»). Senza arrivare al livello di chi partecipa ai Lebowski Fest (quest’anno a Louisville, Kentucky, si celebra il ventennale, ma sono previste anche altre feste a Los Angeles e Chicago) o di chi entra nel dudeismo, la religione fondata da Oliver Benjamin e Dwayne Eutsey partendo dalla filosofia di vita del Drugo («Non ti possono ficcare la testa due volte nella stessa tazza del cesso», è uno dei concetti), c’è comunque un culto condiviso. E fa piacere sapere che là fuori c’è qualcuno che la pensa come te, giusto?
Naturalmente, poi, c'è il valore del film in sé. I Coen lo girarono dopo il flop meritato di Mister Hula Hoop e il successo incredibile (e meritatissimo) di Fargo, realizzando un’opera in cui non conta tanto la trama, ma le situazioni, gli episodi, l’atmosfera. La musica (a partire da «The man in me», di Bob Dylan), le battute: dobbiamo ancora stare qui a dire perché Il Grande Lebowski è un capolavoro? Piuttosto, diremmo che una delle dimostrazioni di questa verità è che siamo ancora qui a parlarne, convintamente. Anche grazie a un compianto professore di università che ci fece seguire minuziosamente il parallelo con Il grande sonno di Raymond Chandler (e la sua versione cinematografica con Humphrey Bogart) o ad articoli che ora ci fanno scoprire la vicinanza tra i protagonisti del film e personaggi come Cheech and Chong (stupendi). Insomma, il buon Lebowski non finisce mai di stupirci, insegnandoci ad aspettare, a prenderla come viene, che poi le cose arrivano: «A volte sei tu che mangi l’orso e a volte è l’orso che mangia te».
La verità, poi, è che il rituale della visione a Capodanno ha qualcosa di rassicurante, è ciclico come il torneo di bowling («Questo non è il Vietnam, è il bowling, ci sono delle regole!») o, fuori dal film, l’Oktoberfest: sai che il momento, da qualche parte, c’è e sai che aspettarlo e riviverlo annulla per alcuni istanti il tempo, che è poi la cosa che ci frega. Soprattutto, sai che non ha alcuna importanza, tra le cose importanti della vita, e proprio per questo è così indispensabile (se non vi piace il paragone con l’Oktoberfest, mettete un altro rito pagano a scelta). Non vediamo l’ora che sia l’anno prossimo, quindi per incontrare di nuovo con «l'uomo giusto al momento giusto nel posto giusto, là dove deve essere». Chissà che questa volta non tocchi proprio a noi, essere gli eroi. Ma poi, «cos’è un eroe?».
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