Paradosso Italia, il Bel Paese dell’arte che non investe nella cultura
La cultura «è anzitutto relazione», condivisione dei valori umanistici del confronto e del dialogo. E c’è un legame profondo tra il lavoro culturale e la democrazia, sottolineato dall’Unione europea nei suoi documenti, a partire dalla Convenzione di Faro del 2005 sul patrimonio culturale. A ribadire questi punti cardine è stato più di un intervento nella mattinata di lavori che ha aperto la seconda giornata dell’ottava Conferenza nazionale dell’Aici (Associazione delle istituzioni di cultura italiane), ospitata ieri a Brescia nell’Auditorium Santa Giulia.
Stabiliti i princìpi, i tempi in cui viviamo impongono tuttavia nuove riflessioni. La cultura è un «soft power», ha osservato Valdo Spini, presidente onorario dell’Aici: «Ma oggi è tornato l’“hard power”, il potere concreto delle armi. Non possiamo dormire sugli allori: coltiviamo il passato e le tradizioni, ma dobbiamo anche metterci in questione e cercare il nuovo». Guardando alla cultura come a un «ecosistema» nel quale - ha suggerito Adalgiso Amendola dell’Università di Salerno - «settori e organizzazioni diverse interagiscono e producono il risultato di favorire lo sviluppo culturale, sociale, civile ed economico delle comunità».
Proprio l’esperienza di Bergamo Brescia Capitale della Cultura ha mostrato che «arte e cultura possono diventare forze propulsive della progettazione dello sviluppo sociale» secondo la presidente Aici, Flavia Piccoli Nardelli. L’esperienza bresciana ha inoltre esibito la qualità di un modello di governance, quello di Fondazione Brescia Musei, che per la presidente Francesca Bazoli ha dimostrato negli anni tutta la sua efficienza.
Il commissario europeo Paolo Gentiloni, che ha inviato un messaggio, dichiara che «storia, creatività e innovazione sono gli ingredienti chiave di un’Europa più competitiva». E Despina Chatzivassiliou-Tsovilis, segretaria generale dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in un videomessaggio auspica a sua volta che il lavoro culturale sia «strumento di promozione di società democratiche, coese e tolleranti».
I dati
Ma i dati sul mercato del lavoro culturale proposti da Amendola e da Andrea De Pasquale (direttore generale Educazione, ricerca e istituti culturali del Ministero) mostrano che c’è ancora strada da fare. Soprattutto in Italia: il nostro Paese è al 19° posto in Europa come percentuale di occupati (3,5%) nel settore culturale e creativo; penultimo per la spesa pubblica nel segmento culturale, e anche la spesa delle famiglie (6,9%) è sotto la media europea. In compenso, l’Italia ha un numero altissimo di lavoratori autonomi nel settore (46,2%), soggetti a contratti a termine e precarietà; e ancora molto elevato è il livello del gender gap. Possiamo aggiungere il dato bresciano ricordato dal rettore dell’Università, Francesco Castelli: la nostra «è una delle province italiane col più basso tasso di laureati».
I numeri vanno poi letti entro un contesto più ampio, come ha spiegato Pier Luigi Sacco dell’Università di Chieti: l’affermarsi di «una multipolarità culturale molto dinamica, che vede l’Europa indietro rispetto ad altri Paesi capaci, come la Corea del Sud, di entrare nell’immaginario collettivo delle giovani generazioni». L’Europa «non ha capito come si fa industria culturale» nel mondo dei social, in cui «i giovani hanno smesso di essere pubblico e producono contenuti in circuiti non tradizionali». La cultura deve attrezzarsi per «recuperare la sua capacità di produrre forme efficaci di cambiamento comportamentale», anche uscendo dagli abituali campi d’azione.
Sacco indica, a titolo di esempio, il «crescente interesse dell’Organizzazione mondiale della sanità per i legami tra cultura, benessere psicologico e salute». Ne sono parte gli esperimenti su «musica e maternità» condotti anche in Italia, che hanno ottenuto buoni risultati nel trattamento di casi di depressione post partum. E il concetto di «cultura come cura», centrale in quest’anno della Capitale della Cultura, può rivelare molte potenzialità inedite.
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