Cultura

Orosz, «Ulisse» dell’arte che inganna l’occhio

Nell’opera grafica dell’ungherese, l’osservatore è attratto da composizioni elaborate e ricche di dettagli.
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«Ulisse, che sconfisse i Ciclopi, usò il nome di Nessuno, e accecò il mostro. Mi piace immaginare che la grafica non sia altro che il gesto di Ulisse: una sorta di attacco all’occhio». Così il disegnatore e grafico ungherese Istvan Orosz spiega la scelta di firmarsi spesso come «Outis» (Nessuno) nelle sue opere più provocatorie ed enigmatiche. Per l’occhio, attratto da composizioni elaborate e ricche di dettagli, e tratto in inganno dagli scarti prospettici, illusioni visive, paradossi spaziali «alla Escher» (l’autore a cui più spesso è accostato Orosz, nato a Budapest nel 1951). Fronde di alberi e rocce si trasformano in volti umani, architetture apparentemente solide si rivelano spazi ambigui o impraticabili, e giochi di riflessi svelano apparizioni inaspettate.

C’è tanta storia dell’arte, nell’opera di Orosz, che in uno dei lavori grafici esposti in città alla Galleria dell’Incisione («La Biblioteca») elenca sul dorso dei libri gli autori prediletti: Leonardo, Dürer e Brunelleschi che ingannarono il Rinascimento con la prospettiva; poi Arcimboldo e Piranesi, che con l’illusione giocarono creando stupore e inquietudine; i surrealisti Dalì e Magritte, che interpretarono visivamente il «lapsus» della mente scoperto dalla psicoanalisi. Ma ci sono anche Einstein con la teoria della relatività, secondo cui lo spazio e il tempo si «curvano» interagendo fino a determinare una sorta di realtà parallela a quella percepita, e Poe che nei suoi testi accolse l’ignoto, l’inaspettato, l’inspiegabile.

Orosz li omaggia tutti: i volti di Dalì, Dürer e Escher emergono da paesaggi surreali costruiti utilizzando gli stessi elementi presenti nelle loro opere. Shakespeare appare dall’osservazione di sguincio della raffigurazione del Globe, il suo teatro. Velazquez e Van Dyck si presentano incorniciati in porte riflesse da una serie di specchi, ma in realtà stanno dietro le nostre spalle. La raffigurazione di ciò che non si vede, è al centro della serie «Assenze», dove la consistenza di un’architettura classica (un acquedotto, un arco di trionfo, un pantheon) è il vuoto disegnato dalla muratura che lo circonda.

L’arte, sembra dire l’autore, è un teatro d’illusione (e lo stesso Orosz è stato scenografo teatrale, prima di dedicarsi alla illustrazione e all’insegnamento in università) tanto maggiore quanto più la raffigurazione pare aderire alla realtà. Tra ricerca scientifica sulla percezione e aperture alla filosofia, Orosz invita ad una riflessione sulla nostra inadeguatezza davanti alla complessità di ciò che appare agli occhi, e che non è detto sia veritiero. La natura soggiace a leggi matematiche (la chiocciola che striscia su un foglio su cui è tracciata una spirale geometrica), o forse è vero il contrario (il tronco d’albero si tramuta in colonna, a svelare l’origine naturale dell’architettura).

Quello che è certo è che affacciandoci a una finestra, spesso non osserviamo il mondo esterno, ma più semplicemente quello che vive dentro di noi.
Giovanna Capretti

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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