Omar Pedrini, tra l'amore per i Beatles e il suo nuovo libro
Prima la musica, poi la saggistica, ma senza rinunciare a digressioni appassionate, quando si possono mescolare note e parole, giri di chitarra e narrazioni emozionanti.
A fine mese, troviamo Pedrini solo apparentemente in pausa da fatiche concertistiche e da quelle parallele di scrittore che promuove il suo quarto libro: domenica, 31 luglio, a Lovere (alle 20.45, in piazza Tredici Martiri, con ingresso libero) lo Zio Rock sarà infatti ospite della serata inaugurale di «All You Need Is Lovere», articolata iniziativa con la quale il bel borgo sebino (provincia di Bergamo, diocesi di Brescia) celebra i leggendari Beatles. Un viaggio in tre tappe (delle altre vi parliamo a parte), che inizia in compagnia di Paolo Mazzucchelli e appunto di Pedrini, affiancato da Carlo Poddighe: se il primo - collezionista di musica, tra i massimi esperti in "cover art" a livello europeo - condurrà un excursus alla scoperta dei Fab Four attraverso le copertine dei loro dischi (oggetto anche di un’apposita mostra), a Pedrini e al fido polistrumentista che lo supporta toccherà il compito di dare contenuto musicale alla narrazione.
Abbiamo approfondito l’argomento con l’ex Timoria
Omar, è noto che sei un fan super-affezionato: come ti rapporti al mondo Beatles?
Nel mio percorso di estimatore ci sono due fasi. Potrei definire formativa la prima, legata all’amore incondizionato che ho provato da bambino, scoprendo le loro canzoni: cosa che è avvenuta naturalmente, perché ho presto sviluppato un debole per i gruppi inglesi degli anni 60, quindi essenzialmente Beatles, Stones, Who. Nel repertorio dei miei tentativi adolescenziali non facevo a meno di «Love Me Do», «Michelle», «Yesterday».
La definizione di "formativa" è ancora più calzante per il periodo in cui ho cominciato a fare il musicista: questa passione ha comportato un costante e consapevole bagno di umiltà, perché il confronto con tali geni (almeno due di loro sono incontestabilmente tali, ma pure George Harrison e Ringo Starr sono stati per me dei grandi) è spietato; ma allo stesso tempo positivo, perché ti mette di fronte ai tuoi limiti, stimolandoti a cercare strade nuove, pur sapendo che loro le avevano probabilmente già percorse tutte.
E la seconda fase?
È quella della esplorazione delle carriere soliste, una volta sciolta la band. Io sono stato affascinato, folgorato addirittura, dalla produzione di John Lennon, anche con Yoko Ono, che non si limitava alla musica, ma sconfinava in altri ambiti artistici e pure nell’impegno sociale, secondo un cammino di contaminazioni che mi apparvero da subito straordinarie. Mi si è aperto un mondo... E quando l’amico Rolando Giambelli, nel 1991, mi ha invitato a partecipare al "Beatles Day", ho affrontato «Mother» (splendido pezzo di Lennon, ndr), che non è più uscita dal mio repertorio live. A ben guardare, i Beatles contaminavano moltissimo già a livello sonoro, tra pop e rock, mai peraltro rinunciando a una chiara impronta chitarristica. Quella che molti musicisti di oggi schivano come fosse un pensiero molesto, tutti conformati agli stessi suoni.
Come ti spieghi questa apparente contraddizione?
Non me la spiego: la morte del rock (non del pop) è periodicamente annunciata, come se il genere non potesse coesistere col rap o con l’elettronica. Per fortuna il rock non è soltanto uno stile, ma anche una filosofia di vita, un veicolo culturale, un fenomeno sociale: non morirà, perché anche tra i giovani permane la linfa vitale che lo alimenta.
Tra concerti e ospitate, non è che trascuri la promozione de «La locanda dello Zio Rock» (Senza Vento Edizioni), raccolta degli articoli realizzati per Coop Lombardia, alla scoperta di piccole eccellenze enogastronomiche del nostro Paese?
In verità, no. Dopo l’anteprima milanese, abbiamo deciso di concentrare le presentazioni del volume in ottobre, per evitare sovrapposizioni con l’attività live, ora che è ripresa senza condizionamenti. In autunno si farà sul serio, e non mancherà ovviamente la tappa bresciana.
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