Omar Pedrini in tour per il documentario sull’amico Ferlinghetti
Da lettore compulsivo degli autori della Beat Generation ad amico personale di Lawrence Ferlinghetti (1919-2021), che di quel gruppo dall’eccezionale creatività è stato padre riottoso, editore e membro a tutti gli effetti. Omar Pedrini può infatti vantare, a partire dal 2000, un’assidua frequentazione - coltivata anche a distanza, attraverso una fitta corrispondenza - con Ferlinghetti, con il quale ha pure composto una canzone, «Desperation Horse», inserita nell’album «Come se non ci fosse un domani», del 2017.
Il brano in questione scorre sui titoli di coda di «Lawrence», biopic che Giada Diano ed Elisa Polimeni hanno realizzato per raccontare Ferlinghetti, ed è tra i motivi che hanno indotto le autrici a «precettare» il cantautore rock bresciano per il tour di presentazione della pellicola in giro per l'Italia: compito assolto con la consueta generosità, visto che l’ex Timoria garantisce agli spettatori del film il valore aggiunto di un’esecuzione live del brano. Succederà anche a Brescia, con la prima visione in programma al Nuovo Eden: l’appuntamento è per domenica 30 gennaio, alle 21 (info su www.nuovoeden.it). Abbiamo approfondito il tema con Pedrini.
Omar, per quale motivo hai deciso di accompagnare il film nelle sue diverse tappe?
È il mio modo di rendere omaggio a un amico. E immaginati la soddisfazione nel vedere in sala tanti giovanissimi, come qualche sera fa all’Anteo di Milano, dov’è andato in scena anche un reading con le sue poesie: gli sarebbe piaciuto un mondo quel pubblico... A me ha riempito il cuore.
Chi era Ferlinghetti?
Un’anima rock anarchica e un uomo che è sempre rimasto giovane, perché ha conservato fino all’ultimo la curiosità genuina di un bambino. Era un giocherellone e ti dava la sensazione che non si prendesse mai sul serio; ma era il suo modo di non far pesare all’interlocutore chi era, di fatto uno dei pilastri della cultura occidentale della seconda metà del Novecento.
Qualche anno fa lo hai definito «un ossimoro vivente». Perché?
Perché era un pacifista dichiarato che non esitava a combattere per le sue idee, un rivoluzionario pacifico. È sempre stato preoccupato - lui che aveva praticamente assistito a ogni tragedia del secolo scorso - dalla possibilità che potessero tornare ad emergere forme di autoritarismo. Per questo ha criticato platealmente Donald Trump, perché gli faceva temere il ritorno a un passato oscuro, in cui a pagare sarebbero stati come sempre gli ultimi, i diseredati, quelli verso cui Lawrence ha avuto un’attenzione particolare in ogni momento della sua esistenza. Era anche un uomo giudizioso, specie in confronto con le sregolatezze di Kerouac, Ginsberg, Burroughs & co.
Quantomeno, cercava di non andare a letto troppo tardi...
Vero, ed esprimeva così il concetto: «Ci voleva pur qualcuno che aprisse la libreria, alla sette del mattino!».
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