Rap e freestyle: Real Talk ha riscritto le regole del gioco
Microfono, cuffie. Cambi di beat. Barre inedite che riportano al centro le rime, eliminando il superfluo. «Real Talk» oggi è una realtà enorme. Un punto di riferimento per gli appassionati del rap, dai «puristi» agli ascoltatori occasionali. Su YouTube ha più di 450mila iscritti, video che sfiorano i 10 milioni di visualizzazioni. Il principio nel quale affonda le sue radici è lo stesso di otto anni fa: «L’unico punto di riferimento per noi è la cultura musicale, non l’hype del momento».
A dircelo è Khaled, manager cresciuto a Brescia e residente per diversi anni a Londra: «Quindici, per l’esattezza». Queste due città, per lui, che «Real Talk» l’ha inventato insieme al producer bresciano Bosca (al secolo Marco Boscarino, quarantottenne), sono legate da un filo magico.
Le origini
«A Londra giravo con i miei cugini, originari della Somalia. Bravi ragazzi, ma teste un po’ calde». Khaled riavvolge il nastro dei ricordi, sorride ripensando a quei giorni. Non vuole condire il suo racconto di retorica, è una preoccupazione che esterna immediatamente e ribadisce, interrompendo più volte il flusso di coscienza.
Fatto sta che «Real Talk» nasce inizialmente per un’esigenza, divenuta poi guizzo creativo e organizzativo: «Capitava spesso che ci trovassimo nei guai. Allora decidemmo di rintanarci in uno studio per passare del tempo insieme, lontano dalle trappole della notte londinese, e fare musica». E così ebbe inizio tutto. Anche se Khaled, all’epoca, non poteva ancora saperlo: «Un ragazzo, Blackson, venne da noi e cominciò a improvvisare al microfono. Io lo ripresi con un iPad e la cosa ci gasò parecchio. Dopo un paio di settimane lo invitai nuovamente in studio, con una scusa lo trascinai con me in aeroporto, e lo mandai a Brescia da Bosca. Fu lui il protagonista della puntata pilota».
Il format
Funziona così: si invita un ospite, che mette in rima versi inediti. Vietato attingere dal proprio repertorio di canzoni già pubblicate, su questo «Real Talk» non transige. È una frontiera nuova del freestyle, si discosta dalla sua concezione originale, che prevede totale improvvisazione: «Anche se c’è chi l’ha fatto: penso a Shade, oppure a Clementino. A un certo punto dovemmo fermarlo (Khaled ride, ndr)». Ma anche chi prepara prima le barre da rappare in studio le manda a memoria: niente leggii, niente telefonini. Niente di niente. Solo la voce, il flow, la voglia di prevalere sugli altri. Pura competizione, sana. È così che funziona nel gioco del rap.
«Real Talk» nasce nel 2016 e in un lampo raggiunge una platea vastissima. Le prime puntate si registravano al Red Carpet Studio, a Chiesanuova. Poi il trasferimento alla Indiebox Music di San Polo. Fino al grande salto, nel 2020, nella Milano capitale dell’hip-hop: «Ci siamo spostati perché avvertivamo l’esigenza di fare un salto di qualità dal punto di vista scenografico. Ma per noi il legame con Brescia è indissolubile».
I conduttori
«Real Talk» è un progetto modellato dalle menti di Khaled e di Bosca, produttore che in carriera ha collaborato con eminenti esponenti del genere, come Bassi Maestro, Dargen D’Amico e Fabri Fibra. Si conoscono da sempre, sono cresciuti insieme. Khaled muove i fili dietro le quinte, dirige e imprime una visione. Bosca è anche uno dei conduttori. Ne serviva un altro, in quel 2016: «Ci mettemmo un po’ a trovarlo» ricorda Khaled. «Io e Bosca eravamo appena usciti da una discoteca di Brescia. A un certo punto gli si avvicina un tale che grida il suo nome, mette in piedi uno spettacolo. Quell’energia straripante mi rapisce in un attimo. “È lui”, sussurro subito a Bosca. Ci basta uno sguardo, e siamo d’accordo».
Il «tale» è Chris Oliver Boninsegna, in arte Kuma, classe 1990. Un omone dal marcato accento bresciano, fisioterapista nella vita di tutti i giorni. C’era nella puntata pilota e c’è oggi: è una colonna del progetto. Il suo è un contributo decisivo per l’identità che «Real Talk» ha consolidato negli anni: esuberante, istrionico, coinvolgente. Presenta e «graffia» i freestyle degli artisti con le sue «sporche», brevi intermezzi di frasi o di onomatopee che sottolineano i passaggi più esaltanti rappati dagli ospiti.
I beat
Nella grammatica del rap i beat sono le basi, i tappeti musicali sui quali si muovono gli artisti. «Le produzioni della prima stagione portano tutte la firma di Bosca – racconta Khaled –. Poi abbiamo cominciato a coinvolgere nuovi beatmaker nel nostro management. Capita, a volte, che un ospite ci chieda di rappare su una base di un suo produttore di fiducia. Noi non ci opponiamo, ma la consideriamo un’eccezione. I nostri beat hanno la priorità». Non è un’impostazione ermetica o conservatrice: scegliere le basi da mettere a disposizione dell’artista di turno consente di non snaturare il format, creare un «mood» unico e riconoscibile.
Gli ospiti
L’ultimo a passare al Decibel Studio, la nuova casa milanese, è stato Fedez, artista affermato e prossimo concorrente di Sanremo. Ma una delle vocazioni di «Real Talk», assicura Khaled, è «dare spazio agli emergenti»: «Anche per questo sono nati nuovi format, alcuni li registriamo ancora all’Indiebox Music, che per noi è diventata una famiglia. Vogliamo coinvolgere tutti: ci siamo aperti all’afrobeat e presto intendiamo farlo con l’R&B».
Le sensibilità artistiche che vi si avvicendano non potrebbero essere più eterogenee. E così i testi: c’è chi scava nei sentimenti e si avventura nell’introspezione, chi strizza l’occhio al pop. E poi c’è chi «sputa barre crude», a volte sbriciolando tabù culturali in un modo che fa storcere il naso a tanti, specie se digiuni di questo genere. È proprio di questi giorni la polemica sull’esclusione di Tony Effe dal Concertone di Capodanno a Roma per il tenore dei suoi testi. Ma la scena è anche questo, oggi. E a «Real Talk» la si intende rappresentare nella sua interezza, senza preclusioni: «Il nostro focus è tutto sulla cultura hip-hop. C’è chi si esprime al meglio con le rime, chi con la voce, chi con l’anima. Non conta come. L’importante è dare tutto quando si è in studio. In un’industria dominata dalle logiche della raccomandazione, delle storie su Instagram, della costruzione del personaggio, noi restiamo fedeli a questi principi».
Sono molti, anche tra i big, a essersi esibiti a «Real Talk» in questi anni: «Tra quelli che mi hanno colpito di più c’è sicuramente Nayt. Poi direi Kid Yugi. Quelle con Lazza e Vegas Jones sono puntate da enciclopedia. Axos è una gran penna, sottovalutatissimo. Le sorprese non sono mancate: GionnyScandal venne in un momento in cui aveva tanti detrattori, e li mise tutti a tacere. E ancora Rocco Hunt, Silent Bob. 8Blevrai ci ha portato il suo background, il suo vissuto: è stato incredibile condividere quei momenti con lui».
Il futuro
«Real Talk» ha quasi un decennio di vita. Anno dopo anno, l’asticella si è alzata: «Negli Anni ‘90 andava in onda Rap City, ma noi abbiamo reso nostro il format. E io aggiungo: nemmeno oggi c’è qualcosa che ci somigli. Né in Italia, né all’estero». È proprio lì che Khaled volge il suo sguardo: «Vogliamo diventare sempre più internazionali, esportare il progetto fuori dall’Italia. Real Talk è unico nel suo genere, ci arrivano complimenti persino dall’America. E poi vogliamo continuare a far crescere gli altri format, per aiutare la nuova scena a emergere». Guai a fermarsi. Da un piccolo studio di Brescia, «Real Talk» pensa in grande e punta al mondo.
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