Musica

Ian Anderson torna a Brescia per San Valentino

Il 14 febbraio il pifferaio magico porta i leggendari Jethro Tull in concerto al Gran Teatro Morato
ape-spe-2 Ian Anderson photographed at his home 2021
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Il leggendario pifferaio magico Ian Anderson torna a Brescia. Lo fa con i Jethro Tull, band di cui è il leader assoluto, tanto che cambiano periodicamente i compagni d’avventura, mentre lo stile inconfondibile è quello che lui determina in prima persona, senza intromissioni.

L’appuntamento, per una delle tappe italiane del «The 7 Decades Tour», esplicitamente antologico «e molto rock, senza pezzi acustici, con una selezione dagli anni ‘60 del secolo scorso ai ‘20 di quello corrente» (parola di Anderson medesimo), è per il prossimo 14 febbraio, giorno di San Valentino, dunque imperdibile per gli innamorati (del progressive): si comincia alle 21.15, al Gran Teatro Morato di via San Zeno 168 (biglietti da 39 a 72 euro + diritti di prevendita; info su qui).

Ian: i Jethro Tull hanno suonato parecchie volte a Brescia e provincia. Ha ricordi particolari della nostra città?

Torno sempre con piacere in Italia e la mia preferenza va proprio al freddo Nord del Paese, dove mi appassiona visitare cattedrali e vecchie chiese, per godermi la solitudine e l’elevazione spirituale. Non ho aneddoti legati a Brescia, ma il pubblico italiano è da sempre entusiasta nei confronti del prog britannico. Rammento che nel lontano 1971 fummo accolti con sorprendente calore, occasionalmente sfociato in scontri con la polizia, con impiego di gas lacrimogeni! Altri tempi...

I Jethro hanno pubblicato alcuni tra i dischi più belli degli anni ‘60 e ‘70. Qual è il suo preferito?

Ne ho in discografia troppi, per indicare un singolo album preferito. Ma sono convinto che, rimanendo a quel periodo, spicchino «Stand Up», «Aqualung», «Thick as a Brick» e «Songs from the Wood».

Per restare al rock progressivo, quali artisti apprezzava di più in quegli anni?

Ciò che ho amato, va dai Beatles di «Sgt. Pepper’s» e dai Pink Floyd di «The Piper at the Gates of Down» - che secondo me iniziarono l’allontanamento dal puro e semplice pop - agli imprescindibili lavori prog di Yes, King Crimson, Nice, Captain Beefheart e Frank Zappa.

Oggi cosa ascolta?

Principalmente musica barocca, soprattutto Händel. A volte, ZZ Top o gli Stranglers.

Dopo 19 anni senza inediti, ha pubblicato due dischi singolari in due anni, «The Zealot Gene» e «RökFlöte». Solo seguendo il suo istinto creativo?

Mi piace, nei limiti del possibile, scrivere musica che sia proprio mia e non riecheggi quella di altri. Incidere e suonare dal vivo mi regala sempre una sensazione di originalità, anche perché non penso che siamo semplicemente uno dei tanti gruppi che fanno rock and roll.

Che legame c’è tra questi ultimi due album?

Forse il tratto epico. «The Zealot Gene» venne scritto e parzialmente registrato nel 2017, ma ci volle parecchio tempo per completarlo, a causa della pandemia: è un lavoro basato su versi tratti da Vecchio e Nuovo Testamento. Ho invece cominciato «RökFlöte» all’inizio del 2021: si tratta di un’opera che scandaglia con leggerezza la personalità di alcune divinità scandinave. Ho cercato di evitare qualsiasi connessione con le esplorazioni pagane dei gruppi di heavy metal o le cupe fantasie di Heinrich Himmler, giusto per capirci. Pertanto serviva un tocco lieve.

In un’intervista di qualche anno fa, mi disse che per la musica aveva rinunciato a una carriera nella polizia. Uno spirito libero come il suo avrebbe resistito, con una divisa addosso?

Non sono mai stato davvero prossimo a vestire un’uniforme: i miei obiettivi erano fare l’investigatore in borghese o l’agente dei servizi segreti. Quella era la prima scelta di un diciottenne, mentre la musica era la terza scelta, poiché sembrava rischiosa. Ma sono stato fortunato, molto fortunato! 

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