I mille colori musicali di Robben Ford al teatro Clerici
Grande musica al Clerici: fresca, spumeggiante, suonata come se sgorgasse per la prima volta dagli strumenti di quattro fuoriclasse che hanno in comune il fatto di aver suonato con un mostro sacro come Miles Davis.
Il formidabile chitarrista californiano Robben Ford - che ha collaborato con gente del calibro di Jimmy Whiterspoon, Eric Clapton, Joni Mitchell, oltre al suddetto Miles - ha infatti pensato di formare una super band d’occasione, cooptando tre colleghi di altrettanta qualità esecutiva in un progetto ispirato da (e dedicato a) Jeff Beck, leggenda della seicorde, morto improvvisamente a gennaio 2023 (l’anno prima si era esibito al Vittoriale con Johnny Depp).
Ed ecco che ha riunito su un palco con sé Darryl Jones (dal 1992 imprescindibile bassista dei Rolling Stones), Larry Goldings (tastierista di James Taylor, tra gli altri) e Gary Husband (batterista che ha suonato con Quincy Jones, Jack Bruce, Gary Moore, giusto per citarne alcuni).
Se c’è lo stigma di Jeff Beck sul live, non è perché Robben Ford voglia imitare il chitarrista londinese («Non sono lui, non pretendo di esserlo, non suono la chitarra come lui, a partire dal fatto che Jeff era un mago del finger-style, mentre io utilizzo di preferenza il plettro: ma sono stato influenzato da lui e con questo atteggiamento ho scritto la musica per il gruppo» ci ha confidato la scorsa settimana in un’intervista), quanto piuttosto perché lo omaggia attraverso brani scritti appositamente (o estratti dai suoi album), che in qualche modo richiamano le composizioni del genio britannico.
Ovvero con gemme inestimabili del repertorio di Jeff Beck medesimo, che hanno entusiasmato la platea, come «Behind the Veil», «Big Block» e «Goodbye Pork Pie Hat», con quest’ultima che è in realtà opera di Charles Mingus, ma di cui Beck propose una versione che il contrabbassista americano definì «eccezionale, incredibile».
Funky, fusion, jazz, rock e blues
Funky e fusion soprattutto, ma anche jazz, rock e un pizzico di blues: poco importa, forse, la definizione dei generi (tanto i quattro sul palco li sanno suonare tutti, e pure altri qui nemmeno menzionati): quello a cui hanno assistito i circa mille spettatori confluiti al Clerici di Brescia (pochi per uno show di tale livello) è stato uno spettacolo prevalentemente strumentale, pieno di colori musicali differenti, dalle suggestioni portentose, in generale così denso e vario da sfuggire a qualunque inquadramento troppo rigido.
Eppure, nonostante la presenza di mille sfumature, il suono ha un’omogeneità di fondo che trova spiegazione nell’alchimia che regna tra i compagni d’avventura, straripanti anche in certi pezzi scritti da Robben, quali «The Ligt Fandango», lo splendido «Two Shades of Blue», il trascinante «Feeling’s Mutual» o «Remedy», che ha saliscendi da montagne russe e una bellezza sfrontata che toglie il fiato.
Ci sono anche tre pezzi cantati da Robben con voce cangiante, che si adatta alla materia: il primo, in ordine di esecuzione, è una versione molto mossa di «Jealous Guy» di John Lennon; il secondo uno strepitoso standard «biblico» di Ramsey Lewis, «Wade in the Water» (parla di Mosè e della fuga dall’Egitto attraverso il Mar Rosso), rivestito con straripante abito rock-blues; quindi «Octavia».
Gran finale con «Make My Own Weather», jazz-funk che esalta la qualità dei singoli musicisti anche attraverso notevoli assoli, sublimandola tuttavia - ancora una volta - nella dimensione collettiva scevra da sterile competitività. Applausi a scena aperta. Chapeau!
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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