Cultura

Moni Ovadia, poetico affabulatore «sospeso tra terra e cielo»

«Dio ride», prodotto dal Ctb, replica stasera e domani all'arena di via Nullo
Moni Ovadia - Foto Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
Moni Ovadia - Foto Reporter Favretto © www.giornaledibrescia.it
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Commentare uno show di Moni Ovadia equivale a cercare di arginare un fiume in piena. Le parole di quest’uomo di teatro dall’affabulazione spumeggiante scorrono torrenziali, a volte mutando forma e mantenendo la sostanza di fondo, altrove reiterando un impianto drammaturgico ampiamente sperimentato per affrontare territori inesplorati. In «Dio ride. Nish Koshe», che ha debuttato ieri all’arena di via Nullo (gremita) e che nello stesso luogo replica stasera e domani (alle 21.30, info sui biglietti qui), Ovadia rimette i panni, dopo un quarto di secolo, di Simkha Rabinovich, carismatico cantore utilizzato in passato per raccontare le storie di esilio di un «popolo sospeso tra terra e cielo» a chi sentisse il desiderio di ascoltare.

La scenografia è di francescana e calda semplicità: al centro della scena molto legno e un mucchio di libri, simbolo forse obsoleto ma sempre bellissimo del sapere, la sola cosa che nei secoli gli Ebrei portarono con sé ad ogni fuga. Sapere che nello spettacolo diventa aneddoto, battuta, lettura, ricordo popolare, estrosa interpretazione. I detrattori di Ovadia sostengono che egli racconti sempre la stessa storia; probabilmente è vero, alla maniera in cui un grande regista fa sempre lo stesso film o un grande scrittore narra sempre la medesima vicenda. È la combinazione degli ingredienti che conta, e gli impasti di Moni sono ad ogni tappa inediti, così come l’associazione dei registri, dal tragico al grottesco, con tutta la gamma dei toni e mezzi toni che rendono uniche le sue esibizioni, inclini a seminare il dubbio più che a consegnare certezze. È successo anche ieri, con l’accompagnamento musicale di un’orchestra che integra italiani, ebrei e rom: comincia parlando di muri, nello specifico di «quello della segregazione, del potere e della propaganda» che non si sarebbe mai aspettato di vedere, in quanto «edificato non per contenere gli Ebrei, ma dagli Ebrei per rinchiudere un altro popolo»; e poi cambia prospettiva, mettendo a fuoco un muro differente, quello del Pianto, per regalarci una barzelletta (strepitosa) che oppone un ebreo ortodosso e un turista americano ateo.

Tale impostazione prosegue lungo tutto lo spettacolo, dove concetti quali divino, diaspora, Shoah, diritti sulla terra e identità nazionale - giusto per citarne alcuni - emergono tra le pieghe esilaranti del viaggio di Abramo, della balbuzie di Mosè, delle letture miopi o stravaganti delle Sacre Scritture, di rabbini e di altri esseri bizzarri. Ancora una volta Moni Ovadia sa dirci che il riso non è soltanto «l’antidoto all’odio e al terrore» (come riteneva Charlie Chaplin), ma addirittura l’atteggiamento giusto attraverso il quale affrontare ogni cosa seria della vita. Dio ride, e noi con lui, anche se qualche volta lo facciamo a denti stretti.

 

 

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