Maurizio Galimberti il «destrutturatore» che rende Storia la cronaca
Poteva stupirci con effetti speciali. E, al contrario dello spot pubblicitario Anni 80 della Telefunken, Maurizio Galimberti lo ha fatto; riuscendoci come solo un artista della fotografia sa fare. Succede così che nella sua mostra «Istanti di Storia» (dalla Luchi Collection Milano) che s’inaugurerà sabato al Mo.Ca di Brescia si rivedono momenti e personaggi della storia moderna già colti da fotocamera e sensibilità di altri autori; scatti documentari che, nella tipica de-strutturazione e ri-costituzione galimbertiana, diventano nuovi «fermo immagine» di un’estetica che non è solo nuova forma, ma aggiunta di segno e significato.
Saranno così, nell’ambito del Brescia Photo Festival, 35 le stampe (anche di grande formato, fino a 1x1,5 metri) esposte (dal 24 giungo al 27 agosto): a formare quasi un’installazione capace di evocare la foto originale di cui si sono alimentate, ma aggiungendo arte e un di più di senso che ne fanno altro.
Succede per l’immagine del povero Aylan, il bimbo di tre anni il cui corpo inanime fu ritratto - con la rabbia che solo una donna sa intrecciare a pietà - nel 2015 dalla fotoreporter turca Nilüfer Demir sulla battigia di Bodrum dopo un naufragio: memoria dell’orrore silenzioso che avvolgeva e avvolge i viaggi della speranza dei migranti. Il «ready made» di Galimberti trasforma quel corpicino riverso e quei pantaloncini neri e maglietta rossa in un più impressionante, vibratile monito fatto di tremolanti onde d’immagine emozionante.
Lo stile del 67enne maestro lombardo - che non a caso sul suo sito si definisce «instant artist» - dice di un... visionario disordine organizzato che lo porta a storicizzare in nuova forma ciò che era cruda istantanea; dandone visione nuova e più potente. Vale per il bimbo «che tutti dovremmo non dimenticare», come per altre scene: quella dei pompieri che emergono da fumi e polveri delle Torri Gemelle crollate; o per la cosiddetta «napalm girl», la ragazzina asiatica che fugge, terrorizzata, denudata e ustionata dalle esplosioni d’un bombardamento, ritratta da Nik Ut nella guerra in Vietnam. E anche un ritratto di Mohammed Ali e Nelson Mandela diventa un... manifesto ideologico-visuale.
Del resto, nell’autobiografia «Il mosaico del mondo – La mia vita messa a fuoco» (Marsilio) Galimberti rivendica l’unicità del suo «creare» foto: «Non documento la realtà, ne costruisco una»; e «Non sono un reporter... la mia ricerca è guidata dal desiderio di costruire una dimensione onirica, visionaria, immaginaria e immaginata». È una fotografia autorale alfiera di irripetibilità non solo perché originata da Polaroid (finché disponibie, poi passando alla Fuji), ma perché il risultato finale è un pezzo unico e neonato.
È lo «stile-mosaico» che fa della sua produzione qualcosa che, appena la vedi, dici «questo è un Galimberti». Ma qui applicato non a celebrity come lo storico multi-Johnny Depp che finì in copertina su Time, o a paesaggi e soggetti d’arte (il Cenacolo milanese, la Vittoria Alata bresciana...) ma a momenti di Storia colti da altri, ma reinterpretati ottenendo un unicum nuovo, «larger than life», anzi «than photo», più ampiamente emozionante.
Così «Istanti di Storia» - progetto nato da un’intuizione di Paolo Ludovici e finito anche in due libri di Skira - si annuncia per il visitatore un’immersione in una fotografia che colpisce per la forma atipica, ma al contempo esorta all’emozione per la sua potenza. Istanti che valgono e non si dimenticano.
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