«Lovetrain2020»: la danza che si ispira ai Tears for Fears arriva al Grande
Chi ritiene la danza contemporanea di difficile comprensione può ricredersi. Perché di fronte a uno spettacolo di Emanuel Gat l’indifferenza è impossibile. Vero: la trama è meno palese rispetto al balletto classico, le immagini risultano più criptiche. Eppure la bellezza che pervade il palco è così estrema da commuovere senza che si sappia perché. Il Grande ha ospitato giovedì, per la seconda volta, il coreografo israeliano e la sua compagnia francese.
«Lovetrain2020», il lavoro proposto stavolta, si ispira alle musiche dei britannici Tears for Fears. Un musical coreutico, senza parole, che immerge nelle sonorità anni Ottanta. L’apertura su «Ideas as opiades» serve per prendere subito confidenza con questo vocabolario tutto parlato dai corpi di danzatori e danzatrici, fatto di movimenti sincopati, espansione, passi classici rivisitati e libertà, ma anche relazioni tra ballerini e ballerine. I quattordici interpreti si distinguono ognuno per la propria bravura, ma soprattutto per l’unicità stilistica ed estetica di movimento.
Gat — come accade in molte opere di danza contemporanea — non chiede uniformità bensì detta una trama interpretabile singolarmente, pure sulle sincronie. Anche per questo ogni persona indossa un abito diverso. Barocchi, contemporanei, pop, capricciosi e sfavillanti, i costumi disegnati da Thomas Bradley (e realizzati con Wim Muyllaert) sono protagonisti tanto quanto la coreografia, insieme alle luci e agli incredibili giochi di fumo che ricreano atmosfere e accenni temporaleschi. In chiusura (prima del lunghissimo, volutamente chiassoso applauso che ha commosso gli artisti e le artiste) nessun brano avrebbe potuto rappresentare meglio quest’opera: «Sowing the seeds of love». «Spargere i semi dell’amore». Gat l’ha fatto benissimo: affollando gli occhi e il cuore di tanta bellezza, e di tantissimo amore.
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