Volo, Bajani e due must-read fra i libri consigliati a marzo

Mentre i primi sentori di primavera illudono, in attesa di un inevitabile ritorno d’inverno, i redattori del Giornale di Brescia si sono prodigati nella lettura di volumi di svariata ispirazione e inclinazione, restando nei paraggi di casa nostra e non solo.
C’è il candidato allo Strega Bajani, che col suo «L’anniversario» racconta una storia di ordinaria violenza domestica, provando a smontare il mito tutto italiano della famiglia felice per forza; e c’è il bestseller Fabio Volo, che nel nuovo «Balleremo la musica che suonano» mostra per la prima volta se stesso senza celarsi dietro un personaggio. Oltre a mettere tanta Brescia sul piatto.
Insieme a loro altre tre opere di Francesco Biamonti, Umberto Brindani e Giorgio Boatti chiudono il quintetto di italica fattura.
Ad accomunare invece i due talenti Alison Espach e Rebecca F. Kuang sono invece la produttività, la nazionalità e l’essere state incluse dal «Time» nei must read dell’anno: il 2024 nel caso di Wedding People e il 2023 nel caso di «Yellowface».
«La magia dei momenti no»
Di Alison Espach
(Traduzione di Benedetta Gallo, Bollati Boringhieri Editore, 2024, pp. 426, 19 euro)

Come una giornata di primavera a febbraio, «La magia dei momenti no» (titolo originale «Wedding People») di Alison Espach, pubblicato lo scorso ottobre da Bollati Boringhieri Editore (384 pagine; 19 euro), è una parentesi luminosa e profumata in grado di regalare al lettore un benessere inaspettato. Un capolavoro senza pretese di cui è difficile non innamorarsi fin dalle inconsuete battute iniziali.
Lila è una sposa intransigente e viziata, come solo certe spose sanno essere. Mettici che per le nozze ha deciso di scialacquare la milionaria eredità del padre, tenendo i suoi ospiti in ostaggio per una settimana nel più iconico hotel di Newport. Lo stesso scelto da Phoebe, docente di letteratura in preda ad una depressione profonda, per regalarsi una serata da sogno prima di uccidersi ingollando le pastiglie del gatto.
Peccato che per nessuna delle due le cose vadano per il verso giusto. Il problema di Lila è Phoebe - col suo spiacevole piano di ammazzarsi proprio durante il suo matrimonio -; e i problemi di Phoebe sono tanti, a partire dal servizio in camera del Cornwall Inn sospeso causa nozze, rovinando il sogno di una luculliana ultima cena prima dell’estremo saluto. E poi c’è Lila - ovviamente - che ha tutte le intenzioni di dissuadere Phoebe e, anzi, di reclutarla nel suo esercito di partecipanti alle nozze, addirittura nominandola damigella d’onore.
Irreverente e dissacrante, ma soprattutto brillante e poetica, la scrittura di Alison Espach ci porta all’arrembaggio di due vite che più incasinate non potrebbero essere. E che pur si agganciano e fungono da reciproco detonatore per i fuochi d’artificio che è la progressione narrativa del romanzo. Poteva essere una commedia noir o un polpettone romantico, ma «La magia dei momenti no» è parimenti un manuale di self-care e un saggio letterario, un poemetto dark e un tormentone cantato a squarciagola da una decapottabile, sfrecciando a cento all’ora sulla strada per l’oceano. Alla fine tutto andrà come non doveva andare. O forse sì. Inevitabile ma non banale, al finale si arriva tutto d’un fiato. Con la voglia di leggere altre pagine di una giovane scrittrice che promette scintille.
Ilaria Rossi, redattrice Cronaca
«Yellowface»
di Rebecca F. Kuang
(Traduzione di Giovanna Scocchera, Mondadori, 2024, pp. 384, 20,90 euro)

Yellowface è un libro feroce. Un romanzo ambientato nel mondo glamour dell’industria editoriale, ma capace di mostrare tutte le ipocrisie, i meccanismi e i privilegi di un ambienbte spesso elitario, scoperchiando anche il tema dell’appropriazione culturale (oltre che dell’appropriazione indebita: il tema di fondo è un furto intellettuale). Rebecca F. Kuang ha scritto una storia che è insieme satira e thriller psicologico, sfruttando una voce narrante disturbante nella sua lucidità e nel suo continuo e incessante autoassolversi.
La trama senza grandi spoiler (la premessa è tutta nelle prime pagine, di grande coinvolgimento): June Hayward è una scrittrice mediocre, che osserva la sua carriera fallire mentre l’amica Athena Liu, talentuosa ed esotica, viene osannata fin dall’esordio post-college. Athena muore in circostanze improvvise nel suo lussuoso appartamento, proprio in compagnia di June. Pur sconvolta, lei riesce ad appropriarsi del suo ultimo manoscritto, che esiste in unica copia e che tratta di una vicenda poco nota della storia cinese. June ruba il volume pubblicandolo come suo, sfruttando anche il secondo nome asian-sounding: Juniper Song. Scelta che le permette di passare per un’autrice sino-americana, cavalcando il mercato della diversità e legittimando la scrittura di una storia che non le appartiene.
L’atmosfera è tesa, claustrofobica, e la narrazione segue i pensieri di June, che si aggrappa disperatamente alla sua menzogna e che addita gli altri di troppa sensibilità, troppo rispetto, troppa correttezza. Il romanzo non cerca redenzione, non offre spiegazioni semplici: forse anche per questo ha vinto così tanti premi (tra cui il British Book Award, il Goodreads Choice Award e l’Amazon Best Book of the Year) e forse per lo stesso motivo «Time» l’ha incluso nei «100 Must-Read Books of 2023».
«Suicidio imperfetto»
Di Umberto Brindani
(Armando Curcio editore, 2024, pp. 218, 18 euro)

Un giallo metropolitano, una storia che racconta i retroscena di un caso di cronaca nera e le dinamiche che si sviluppano durante le indagini tra un giornalista e gli inquirenti. «Suicidio imperfetto» (Armando Curcio editore, 217 pagine) è scritto da Umberto Brindani, una vita passata nelle direzione dei principali settimanali italiani. È un romanzo veloce e piacevole che si fa leggere pagina dopo pagina. Una fotografia del mondo del giornalismo e della magistratura. È la quotidianità di un cronista di nera e giudiziaria di un quotidiano locale stravolta da una vicenda delicata: il presunto suicidio della giovane figlia del suo editore, uno degli uomini più potenti e influenti della città che personalmente chiede al giornalista di capire di più sulla tragica fine della sua unica figlia.
Tra dialoghi lasciati a metà e poi ripresi, rapporti che sembrano impossibili e che invece si trasformano in clamorose relazioni professionali e umane, quella che sembra un’inchiesta chiusa assume contorni inaspettati. Con droga, prostituzione e soldi facili sullo sfondo.
Andrea Cittadini, vicecaporedattore
«Balleremo la musica che suonano»
Di Fabio Volo
(Mondadori, 2024 pp. 189, 19 euro)

Per la prima volta in un suo libro (il quattordicesimo dal 2001) il concittadino Fabio Bonetti, per tutti Volo, parla di sé in modo autobiografico e non romanzato. Ne emergono la grande sofferenza, il determinato carattere, l’armonia tra i familiari, la forza della fede in se stessi.
In un testo dalla narrazione fluida, Volo racconta di quanto – più della scuola, abbandonata dopo la terza media per lavorare nella panetteria di famiglia – lo abbiano plasmato i libri e formato i viaggi. È un suo sofferto, catartico, percorso personale che lo ha portato a una precisa coscienza di sé, ma fortunatamente non una sollecitazione ai giovani a lasciare gli studi.
Il messaggio che deriva dalla sua esperienza, e non solo per i giovani, è avere consapevolezza delle proprie capacità e dedicarsi al perseguimento del proprio obiettivo. «Il talento è un dono, ma il successo è un lavoro» il motto del suo mentore, Claudio Cecchetto.
Sullo sfondo della storia, una Brescia tanto amata quanto giudicante e soprattutto la tenerezza per un padre nel quale Fabio si rispecchia. Per la sua sofferenza, la sua fatica, i suoi debiti. Saldati, alfine, dalla passione del figlio per la vita.
Roberto Bernardo, caposervizio
«Vento largo»
Di Francesco Biamonti

(Einaudi, 2014, pp.107, 22 euro)
«Nella luce distesa tra ulivi e solitudini di rocce arrivò il suono della campana mediana». Quanti amano incipit fulminanti, farebbero bene a leggere «Vento largo» di Francesco Biamonti. Ma anche chi non li ama farebbe altrettanto bene, perché i pregi di questo romanzo sono davvero molteplici. In un lirismo che non dà cittadinanza ad alcun luogo comune, ad alcuna espressione scontata o prevedibile, lo scrittore di San Biagio della Cima, nell’immediato entroterra di Ventimiglia, ci narra una storia di passeur e amori sospesi, di terra di confine senza confini, resi impalpabili dall’andirivieni del protagonista che suo malgrado si reinventa accompagnatore di clandestini lungo i sentieri impervi e nascosti che collegano Italia e Francia. Un romanzo fatto di attese, immerso in una natura maledettamente mediterranea, lentischi, ulivi e mimose coltivati nei secoli strappando terra alla montagna, fino alla decandenza che spopola i borghi aggrappati al sole della costa, sotto cui si consumano attese e silenzi.
Varì, da agricoltore divenuto suo malgrado contrabbandiere di umanità in fuga, nei passaggi di frontiera – quando ancora Schengen era di là da venire e a scappare era chi da oltre cortina cercava nuova vita in occidente – preconizza un’Europa che muta pelle e si sfalda, anticipando con lucida consapevolezza le tematiche migratorie. Sabèl, la donna amata da Varì, è sfibrata dalle attese e da un’imprevista rivelazione: cerca nuova vita in una Costa Azzurra sospesa tra quella Marsiglia dove chi abbandona la Liguria va «a camallare» e l’ultima propaggine del Ponente. A unire destini e visione è, per Biamonti, un combinato di luce romanza e Mediterraneo, con il mare a fare da luogo di pace, incontro, redenzione. E una lingua, il provenzale, ripreso tra le pagine nei canti di pastori e donne, che accomuna tutti, da Genova a Barcellona.
La terra è uno specchio del cielo, scomposto in una luce e in un caledoscopio di colori che rievoca certe tele di Cézanne. Una riedizione del «pensiero meridiano» di Camus (l’autore franco-algerino di sangue catalano tanto caro al nostro ligure) che fa di Biamonti una sorta di trait d’union fra Cesare Pavese e Jean-Claude Izzo. La forza del suo pensiero e la potenza del suo stile lo rendono un unicum nel panorama letterario di fine Novecento, e non stupisce che a scoprirlo sia stato Italo Calvino. Né che di recente l’attualità della sua opera si stata ribadita dalla ripubblicazione per i tipi di Einaudi, suo unico editore, delle quattro opere principali, tre in unico volume, fra cui lo stesso Vento Largo.
Gianluca Gallinari, caporedattore
«L’anniversario»
Di Andrea Bajani
(Feltrinelli, 128 pp., 16 euro)

Può un figlio «divorziare» dalla propria famiglia? Sì, se il taglio definitivo del cordone ombelicale è l’unico strumento per garantirsi la salvezza. Fisica e mentale. Andrea Bajani affronta il tabù dei tabù, almeno per la cultura italiana: la rinuncia al legame di sangue su cui da secoli si fonda la nostra società.
Nel suo romanzo (già candidato al Premio Strega) racconta la storia, come potrebbero essercene tante, di una famiglia disfunzionale nel cui perfetto e perverso meccanismo entrano un padre-padrone violento senza aver troppo bisogno di menare le mani, una madre sottomessa e rinunciataria ad ogni aspirazione di autonomia, una figlia contestatrice che sceglie di allontanarsi, un figlio (il protagonista) che resta intrappolato nelle dinamiche malate di dominio e sottomissione, nel tentativo di arginare in qualche modo – con l’ironia, soprattutto – gli accessi d’ira del genitore. Che resta al centro di questo universo distorto, relegando la madre ai margini, fuori dal campo visivo, sempre.
Con precisione quasi da entomologo, il protagonista analizza a distanza – a dieci anni dal «taglio» con la propria famiglia, di cui celebra l’anniversario del titolo – il meccanismo di controllo patriarcale su cui si regge un falso equilibrio, l’escalation di sottili crudeltà inflitte alla madre (l’allontanamento dalla famiglia di origine, la derubricazione del suo lavoro a «svago», la condanna delle amicizie, il controllo del telefono). Fino al paradosso, dopo la violenza agìta, che sia il genitore a concedere il perdono alla donna («perdonare, per mio padre, era l’unico modo per venire assolto, e senza assoluzione si sentiva condannato al baratro assoluto»).
Bajani prova a scandagliare il retroscena di tante «ordinarie» violenze familiari, certamente più numerose di quelle di cui veniamo a conoscenza, spesso quando è troppo tardi. E affida alla narrazione, con la sua forza disvelatrice, il compito di togliere la madre dal cono d’ombra a cui per paura si è autoconsegnata. Per sé, il protagonista sceglie la rescissione di ogni legame. A noi lascia il dubbio sulla reale consistenza di un «mito» tutto italiano. Qualcosa, fa dire al suo protagonista, «che andrebbe approfondito, nel nostro ridurre a famiglia ogni atto sociale e ogni spinta identitaria, dal mutuo aiuto al capitalismo familiare alla vendetta, dall’articolazione della rete criminale all’incapacità di esprimere una forma di governo duraturo, una forma cioè di potere riconosciuto come superiore al vincolo dei geni, alla parentela». Un «mito» da cui potersi staccare senza sensi di colpa.
Giovanna Capretti, vice caposervizio Cultura
«Preferirei di no»
Di Giorgio Boatti
(Einaudi Saggi, pp. 240, 14 euro)

«Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi» ha scritto Brecht. Difficile dargli torto. Se tuttavia dovessi scegliere, ne indicherei non uno, bensì dodici: i professori universitari che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista, senza clamore di fanfare o clangore di spade, semplicemente opponendo alla forza ragione, coerenza e forza d'animo.
«Preferirei di no» di Giorgio Boatti è la sintesi perfetta del loro gesto e pure il titolo del libro che ne parla (a sua volta una citazione di Herman Melville, nel suo «Bartleby lo scrivano»).
Non erano militanti di partito, né comunisti o rivoluzionari. Per la maggior parte liberali, qualcuno di essi cattolico di vecchio stampo, pagarono cara la loro scelta, perdendo il lavoro e venendo esclusi dalla società del tempo, lasciandoci però un esempio fulgido e alcuni lezioni che meritano una rinfrescata.
Il coraggio di essere minoranza, innanzi tutto, con solo dodici su mille e duecentocinquanta docenti a rifiutarsi di prestare giuramento. E, ancora, l'opposizione al conformismo e al compromesso, sapendo ben distinguere il confine labile tra necessità e complicità, assenza di alternative o scelta di comodo.
Decisioni sempre sofferte, grevi di conseguenze, oltre che di significato, che coloro che hanno un minimo di capacità empatica colgono appieno leggendo un libro scritto quindici anni fa, ma che conserva vibrazioni e interesse per il tempo odierno, nel quale il dissenso trova a fatica spazio anche in democrazie liberali di lungo corso.
Ecco perché quelle storie sono importanti e quei nomi meritano di essere ricordati a lungo, a volte pure recitati, una sorta di preghiera laica a imperitura memoria e sprone per i giorni che verranno: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra.
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