«L’eterno confronto tra azione politica e spinta morale in quattordici saggi»
Quattordici saggi per analizzare la costante tensione tra morale e azione politica. Si intitola «L’inquietudine costituente» (Pacini editore, 310 pp, 27 euro) l’ultimo volume che raccoglie i lavori del prof. Fulvio Cammarano, docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna e editorialista del nostro giornale. Il volume offre spunti di riflessione non solo a livello storiografico ma anche sulla politica.
Professor Cammarano il suo ultimo lavoro non è una monografia ma una raccolta di saggi pubblicati tra il 1993 e il 2020. Quale è la genesi di questo libro?
Ripensando al lavoro svolto negli ultimi trent’anni e oltre, mi sono reso conto di aver introdotto diversi temi in qualche modo pionieristici, nel senso che hanno avviato veri e propri percorsi di ricerca e nuove ipotesi storiografiche e di conseguenza ho ritenuto che fosse opportuno mettere in fila tale lavoro seminale. Soprattutto però ho realizzato che, pur nella varietà dei temi affrontati, si coglieva con chiarezza il filo rosso che li univa e di cui non ero stato sino a quel momento consapevole. Tale considerazione mi ha convinto che pubblicare quei saggi seminali non sarebbe stata solo un’esposizione di passate riflessioni storiografiche più o meno interessanti, ma avrebbe potuto diventare un’occasione per far risaltare un metodo e un ambiente di ricerca che, nel loro piccolo, mostrano un tratto del percorso della storiografia politica del XXI secolo.
Il volume si intitola L’inquietudine costituente a ribadire la costante tensione tra potere costituente e potere costituito. Oggi in cosa si traduce?
Il conflitto costituente-costituito è di fatto il motore della lotta politica dell’età contemporanea. È l’eterno confronto tra morale e politica, le due polarità entro cui si muove la ricerca di un ordine «giusto» e di una più solida legittimazione del potere. Paradossalmente in Italia, oggi più di ieri, si assiste al tentativo delle élite al vertice del Paese di presentarsi come ceto dirigente «di lotta e di governo», gestori e contestatori, allo stesso tempo, del sistema politico, il che rende complicata la necessaria divisione di ruoli e responsabilità.
Un saggio è dedicato al dibattito sul neutralismo nella Prima guerra mondiale. Oggi la guerra in Ucraina ha avuto l’effetto di ridisegnare la mappa dei paesi neutrali in Europa. Finlandia e Svezia sono entrate nella Nato, in Irlanda si è aperto un dibattito sul neutralismo e sull’opportunità di un referendum e lo stesso sta avvenendo in Austria dove la neutralità è nella Costituzione. Cosa ne pensa?
Il neutralismo è una scelta politica, la neutralità è invece una posizione filosofica che difficilmente si può trovare all’interno del sistema delle relazioni internazionali. L’Italia, alla vigilia della Prima guerra mondiale, si è dichiarata neutrale, ma di fatto la sua opinione pubblica sosteneva, in funzione antiaustriaca, la causa dell’Intesa, senza tuttavia ritenere necessario partecipare al conflitto. Solo il diretto intervento del re e del governo hanno modificato la situazione e spinto l’Italia ad entrare in guerra. Oggi il contesto è di tutt’altro tipo.
La nuova fase di tensioni tra grandi potenze sta erodendo le sfere della neutralità sorte alla fine della Seconda guerra mondiale come riconoscimento del diritto dell’Unione Sovietica a non avere minacce a ridosso della propria area di influenza. La Russia, aggredendo l’Ucraina, ha cercato di recuperare lo status di grande potenza perso dopo la caduta dell’Urss, ma allo stesso tempo ha reso insicuri i Paesi neutrali che alla fine hanno scelto di garantire i propri confini entrando nella Nato. Questo, se vogliamo, è l’ultimo grande effetto della conclusione della guerra fredda: la fine del bipolarismo ha significato la fine delle regole e dunque delle garanzie assicurate da quel confronto duro, ma «regolato», durato mezzo secolo.
Nel volume si parla anche del concetto di crisi politica. L’opinione pubblica ormai assiste ad un orizzonte politico cadenzato da crisi politiche in cui lo stato d’eccezione viene percepito come la normalità.
La crisi politica è sempre stata una sorta di araba fenice della storiografia, un concetto passepartout che serviva allo storico per uscire dalla difficoltà di spiegare cambiamenti e trasformazioni difficili da interpretare. A differenza della crisi economica che si manifesta attraverso effetti socialmente percepibili, la crisi politica necessita però di una narrazione. Alla sua origine troviamo sempre un elemento di contestazione del ceto dirigente ad opera di gruppi di interesse o di movimenti sociali, in crescita o in declino, insofferenti degli equilibri esistenti. Ritardi e insoddisfazioni però non rappresentano, in quanto tali, elementi sufficienti per scatenare una crisi politica. Rimane essenziale la componente soggettiva di chi ha la forza di attirare l’attenzione su una determinata «narrazione» e descrivere quel ritardo e quella insoddisfazione come segnali di crisi. Pertanto, un aspetto centrale di quella che noi chiamiamo crisi politica è l’efficacia narrativa e persuasiva che, in quanto tale, fornisce un potente strumento di disgregazione di convinzioni consolidate. Cos’altro sono state, solo per fare due esempi, la crisi del centrismo o la crisi della «prima» repubblica, se non attacchi ben narrati ad assetti di potere da parte di gruppi dirigenti in ascesa? La crisi politica dovrebbe dunque essere considerata come «percezione ben narrata» di un disagio, non importa quanto effettivo, attraverso cui il narratore ha la forza, la capacità, di chiedere cambiamenti più o meno strutturali negli assetti di potere esistenti.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@Buongiorno Brescia
La newsletter del mattino, per iniziare la giornata sapendo che aria tira in città, provincia e non solo.