«La via del sale», il capolavoro di Michele Gazich
Il capolavoro di Michele Gazich. Anzi: un capolavoro tout court. Verrà pubblicato il 29 settembre «La via del sale», il quinto album (oltre ad un ep) dello «scrittore di canzoni», violinista e polistrumentista.
Anticipato dal singolo «Storia dell’uomo che vendette la sua ombra», è il disco di una vita. Perché un’opera di questa natura è possibile solo nella dimensione della crescita e del tempo. Una crescita fatta di esperienza ed esperienze, di maturità, di incontri. Un tempo trascorso nell’ideazione, nella cura (come per una piantina amorevolmente accudita), nella ricerca (compresa quella di persone e strumenti adatti, per ogni passaggio).
Ha suonato, Gazich, con nomi del calibro di Mary Gauthier, Michelle Schocked, Eric Andersen, Mark Olson... Li ammira. Ricambiato (tant’è che proprio Mary ha supervisionato la traduzione in inglese dei testi). Ma non scimmiotta l’America, pur se qua e là se ne avverte l’eco. La sua ambizione era, viceversa, la costruzione di un folkrock che fosse italiano e mediterraneo: dove il colto è popolare e il popolare è colto. Tentativo (più che) riuscito. Senza avvolgersi acriticamente nel tricolore o sventolare la bandiera di un’Europa oggi lontana dalla propria storia e dai propri ideali. Ma ri-sottolineando da dove veniamo, per provare a ricordare cosa dovremmo essere.
Un «colpo di batteria come un calcio dato ad una porta» e col primo brano, la solenne title-track, si spalanca un mondo, lungo la dorsale dell’Appennino (da cui si prende subito a prestito il particolare piffero, oboe dolce e potente). Domina la zampogna a chiave del Sannio, strumento antico nelle mani di un giovanissimo: Jacopo Pellicciotti. Ed è stigma. È l’artista vero, che va a prendersi proprio quel suono e quell’atmosfera; inerpicandosi, se serve, lungo i sentieri di montagna e del Molise. È (r)esistenza.
Per la giusta misura Michele è anche disposto a farsi da parte. Come in «Viaggio al centro della notte», dove depone il suo violino (costruito a Genova nel 1935) e lascia che ad incantare sia il violoncello di Francesca Rossi: la corda più grave è stata abbassata di un tono e il suono, «inquietante e soprannaturale», accompagna nell’esplorazione, che risale a San Giovanni della Croce; a quel cercare Dio non attraverso l’intelletto bensì nel brancolare della mente.
Ad ogni passo (e ad ogni significato) corrisponde uno strumento. «Dia de Shabat» è un blues, ma alla maniera non del Mississippi bensì di Mauro Pagani. E mentre dialogano l’appropriato bouzouki (affidato a Marco Lamberti) e il cantato, il Gazich qui violista si mette, ancora, in un margine pudico e profondo; che proprio per questo attira l’occhio, e brilla. La voce. Sa, Michele, di non essere un vocalist nato. Ed eccolo impegnato nello sforzo di costruire un modulo suo, autocoerente, riconoscibile: un cantato-recitato quasi sussurrato eppure profondo, intenso, talvolta dolente.
Il rischio dell’interpretazione monocorde sarebbe dietro l’angolo, ma, ancora, i contributi esterni punteggiano, sorprendono, arricchiscono: un vocalizzo baritonale di Pietro Campi e frasi in tedesco di Frank Deja; l’inquietante voce punk di Rita Lilith Oberti (tra il luciferino e dolorose consapevolezze) nel citato singolo; il dialetto isolano (per l’incipit giovanneo) di un formidabile Salvo Ruolo in «Barcellona, Sicilia», dove c’è anche una voce femminile (Francesca Rossi) e dove la Trinacria è essenza, non folklore in senso caricaturale. Ripetiamo: «La via del sale» è intriso di sapienza e cultura, ma anche d’immediatezza.
«Un tempo la fuga era un’arte» cita Bach per poi diventare una polka balcanica «disordinata, caotica, volgare e sincerissima» di quelle che piacerebbero ai fan di Goran Bregovic e Vinicio Capossela. È più facile così aver voglia di riascoltare. E riascoltare e riascoltare... E spigolare, notare, cogliere... Apprezzare. Per poi amare. Un capolavoro.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato