La star del Royal Ballet dice addio ai palchi
Al mare in Toscana con Maia, la bimba di nemmeno due anni che un po’ le corre intorno e un po’ le si incolla addosso, Mara Galeazzi fa ancora fatica a realizzare: lei, la principal del Royal Ballet, la stella nata a Chiari che ha incantato le platee di tutto il mondo con le sue «Giselle» e le sue «Manon», ha lasciato. All’apice della carriera, come solo i grandi sanno fare, e dopo aver salutato con un lungo «valzer degli addii» - che si è concluso il 30 luglio a Cortona, dopo la serata trionfale del 23 al Teatro Romano di Verona - i suoi fans, il pubblico, gli amici.
Come si sente? Sempre convinta di non indossare più un tutù?
Sì. Ovvio che non sto saltando dalla gioia; la danza è stata la mia vita. Ma sapere che rimarrò in contatto con il mio mondo, con i miei colleghi, mi è molto d’aiuto. Ho lasciato il balletto classico, che esige un allenamento quotidiano, ma non il lavoro. Anzi. A Londra sarò impegnata in una coreografia contemporanea ispirata alla figura di Cassandra, che coinvolge anche una cantante e un artista di Visual Art. E poi continuerò a far spettacoli di beneficenza a sostegno di «Dancing For The Children». Finché il 30 agosto volerò in Oman, con Jurgen, mio marito, e Maia.
La famiglia è stata una molla importante nella sua decisione.
Sì. Era il momento che vivessimo finalmente tutti insieme. Jurgen, che è belga, lavora da tempo a Muscat, in Oman, come manager di palcoscenico. Io vivevo a Londra con la bimba. Ci incontravamo ogni due mesi. Non era più possibile andare avanti così.
In Oman ha un progetto ambizioso, giusto?
Sì. Mi piacerebbe creare una piccola compagnia di danza, magari di una decina di elementi. Ho diversi contatti, ma non c’è ancora un «sì» ufficiale. Non sarà facile, ma le sfide non mi hanno mai spaventata sin da quando, bambina, ho lasciato Coccaglio, dove vive tuttora la mia famiglia, per la Scala e poi il Royal Ballet. All’inizio a Londra è stata dura, non parlavo bene l’inglese, soffrivo di solitudine. Ma poi la mia carriera è decollata, grazie soprattutto ai miei genitori che hanno saputo rispettare la mia scelta, e ingoiare la nostalgia.
Abitando in Oman spera di riuscire a vedere la sua famiglia d’origine più spesso? Sì, e mi auguro anche di poter frequentare di più i miei suoceri, che vivono in Belgio, e non possono muoversi.
L’Oman è un paese musulmano piuttosto rigido. Non teme che il suo progetto possa essere ostacolato? Insomma, le ballerine hanno per forza le gambe scoperte...
So che il Sultano ha studiato in Occidente e sta promuovendo una politica progressista, anche più aperta verso le donne. Del resto nel teatro di Muscat si sono già esibiti l’American Ballet, il Bolshoi e la Scala e non ci sono stati problemi. Ma non mi illudo: so che dovrò risolvere dei problemi.
La determinazione non le manca. Maia è nata anche grazie alla sua forza di volontà. Esatto. Mi avevano diagnosticato un’infezione al rene, mi avevano detto che avrebbe intaccato la muscolatura e che non avrei mai potuto avere bambini. Mi sono curata ovunque. E così ho salvato carriera e maternità. Sono stata fortunata. Per questo non mi dimentico mai del prossimo e, dal 2007, lavoro per «Dancing For the Children». Ho raccolto fondi per curare i bimbi africani affetti da Hiv e tornerò in Sud Africa per altre iniziative. Spero di far qualcosa anche per l’Oman che è pieno di gente poverissima.
Laura Magnetti
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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